TRA INSEGNAMENTO INTENZIONALE E APPRENDIMENTO IMPLICITO. ALCUNE COSE CHE CREDO DI AVERE IMPARATO DA PINO FOSCHIIn questo caso, l'emozione a cui si riferisce il titolo di questa sezione del blog è quella suscitata in me dalla scomparsa di un collega e amico che nella prima fase della mia socializzazione professionale (una vita fa) è stato mio mentore nel corso di alcuni anni cruciali per la mia esperienza di che cosa è un'organizzazione. É per questo motivo che nell'evento organizzato dall'Università di Ferrara e dal CDS (al quale ha partecipato anche il ministro dell'istruzione Patrizio Bianchi) per ricordarne e onorarne la memoria, ho scelto di richiamare alcuni elementi della mia esperienza di rapporto con lui, e 'alcune cose che credo di avere imparato da lui', lasciando sullo sfondo il contributo 'Per un'ecologia dell'occupabilità' che ho elaborato per il volume che raccoglie l'insieme delle testimonianze e dei testi finalizzati a ricostruire il quadro della sua inesauribile attività. Il volume, a cura di Andrea Gandini e Bruno Zannoni, ha per titolo 'Per Pino, oltre l'orizzonte. 70 anni di lotte, innovazioni, comunità di pratiche e tanta amicizia' (CDS Cultura Edizioni, 2022). Quello che segue è il testo integrale del mio intervento al seminario in sua memoria. Il testo del mio contributo al volume è invece consultabile QUI 1. Premessa Come un fiume carsico, il mio rapporto con Pino si è sviluppato in superficie per quasi un decennio, a partire da metà degli anni ’70, come rapporto tra un mentore (lui) e un giovane laureato (io). Dopo alcune prime esperienze di collaborazione con Enzo Spaltro (relatore della mia tesi in psicologia del lavoro) nella didattica universitaria e nell’attività di consulenza organizzativa, affrontavo per la prima volta l’esperienza di inserimento e di socializzazione professionale ‘come dipendente’ in una grande organizzazione. Avevo il compito di progettare e pianificare gli interventi di formazione continua dei docenti del sistema di formazione professionale dell’Emilia-Romagna; e oltre a ciò, di fornire sui temi della formazione e del mercato del lavoro un contributo specialistico alla formazione dei dirigenti e degli operatori del sindacato, che Pino progettava e organizzava. Questa esperienza è stata per me, sia in sé che grazie al rapporto con lui, autenticamente ‘fondativa’ e strutturante; e grazie ad essa ho potuto sperimentare quel rapporto di apprendistato (anche se contrattualmente non era questa la forma del mio rapporto di lavoro) che oggi tanto viene evocato nel dibattito sul c.d. ‘mismatch professionale’ (così ricco di malintesi, per inciso), e di cui tanto si avverte l’esigenza. Rapporto di apprendistato che però ha bisogno, per essere autentico e potere ‘inverarsi’ oltre la pura forma, di alcune condizioni ‘sostanziali’, che allora c’erano tutte.
Per riemergere quasi vent’anni dopo; quando, dopo che ero divenuto ‘sul campo’ un esperto piuttosto riconosciuto sui temi della competenza, della sua certificazione, delle metodologie di alternanza, e dei percorsi di orientamento e accompagnamento al lavoro, Pino mi contattò per avviare una riflessione comune (questa volta ‘tra pari’) sui tali temi. Un riflessione, come sempre nel suo caso, fortemente ancorata e finalizzata rispetto all’esperienza dei PIL, che costituivano allora la nuova forma di alternanza letteralmente ‘inventata’ da Pino e dal CDS per continuare a innovare la ‘terra di mezzo’ tra domanda e offerta di lavoro. Da allora siamo rimasti periodicamente in contatto, e l’evoluzione di questi temi nel dibattito socio-istituzionale e nelle pratiche sul campo (e parallelamente l’evoluzione delle nostre reciproche esperienze) è stata tale da rendere ancora più interessante il confronto sul tema delle Politiche Attive del Lavoro e dei Servizi per l’Impiego. 2. Perché un contributo sull’occupabilità La evoluzione del nostro rapporto, che ho qui necessariamente sintetizzato in poche parole, rende ragione della decisione che ho alla fine assunto, in seguito alla richiesta di Andrea Gandini e degli amici del CDS, di partecipare al volume in memoria di Pino con un contributo che ha per oggetto il tema dell’occupabilità. Ciò non solo perché occupabilità è un termine che si trova come tale proprio nel titolo del programma GOL (che costituisce, anche simbolicamente, l’atto di riconoscimento e riscatto del ruolo cruciale di PAL e SPI per affrontare le sfide dello scenario emergente sul piano del mercato del lavoro), ma anche e soprattutto perché è un termine che evoca altri temi-chiave che sono stati in questi anni oggetto sia di riflessioni ‘pubbliche’ che (come spesso succedeva con Pino) di lunghe discussioni private tra di noi, non di rado interminabili colloqui telefonici. ‘Per una ecologia dell’occupabilità’ è quindi il titolo che ho ritenuto più appropriato, per un contributo che continuasse idealmente la conversazione con lui sui temi di nostro comune interesse, e che mi spingesse, come spesso è stato nel rapporto con lui, a ‘fare un piccolo passo in avanti’, costringendomi a ricostruire, precisare, argomentare. Una cosa che ho imparato col tempo è che man mano che si procede nella conoscenza di uno specifico argomento, aumenta la complessità delle dimensioni che se ne intravedono come costitutive, e quindi la complessità del linguaggio che ci troviamo a utilizzare per esprimerlo, e delle soluzioni che cerchiamo di individuare per affrontarlo. Questo ci porta (soprattutto quando, come nel caso di Pino, l’intento non sia esclusivamente speculativo, ma intenda intenzionalmente privilegiare l’impatto operativo, e il rapporto ricorsivo tra teoria e pratica) a fronte di un autentico dilemma: quello tra semplificare impropriamente per comunicare più efficacemente (e ‘vincere’ la battaglia del consenso a breve termine) e, all’opposto, complessificare appropriatamente, ma creando inevitabilmente problemi di comprensibilità con i propri interlocutori (rischiando di ‘perdere’ la battaglia del consenso a breve termine, nel tentativo di perseguire un migliore risultato a lungo termine). Tutto questo mi è tornato in mente argomentando sul tema dell’occupabilità; così come mi è tornata in mente quella volta in cui Pino mi chiamò per dirmi di avere letto un mio contributo sul tema della competenza in cui affermavo che pur rendendomi conto di avere aggiunto complessità all’analisi del tema, non potevo ormai più ‘fare finta di non sapere’, e di non avere visto quello che avevo visto e compreso nel mio percorso di studio/ricerca e nella mia attività di consulenza professionale. E che tale consapevolezza era ormai per me ineludibile, e me ne derivava l’obbligo di onorarla, costi quel che costi.’ E a questo proposito proprio lui, che ai miei occhi è sempre stato l’interprete migliore della finalizzazione pratico-operativa della riflessione teorica (e quindi del suo efficace ‘impatto sul mondo’) mi confidò, sorprendendomi, che quella era una frase che condivideva pienamente; e che anche lui credeva che si trattasse sempre di onorare eticamente la propria competenza, anche a costo di rischiare sul piano del consenso. Ma dal momento che il contributo sull’occupabilità che ho scritto per il volume rimane, e potrà essere consultato da chiunque sia interessato ad approfondire gli aspetti di merito della riflessione che ho proposto, come continuazione del mio dialogo con Pino, ho pensato che fosse importante (per me, innanzitutto) cogliere l’opportunità di questo evento per ricordare almeno qualcosa di ciò che credo di avere appreso nella relazione con lui, in quegli anni ‘fondativi’ del nostro rapporto a cui mi sono riferito all’inizio. 3. Che cosa credo di avere appreso nella relazione con Pino Sarebbe allo stesso tempo irrealistico e riduttivo pensare di riuscire a rendere conto in questo breve contributo di tutto ciò che un rapporto come quella con Pino mi ha consentito di acquisire, sviluppare e ‘fare mio’ (come suggerito dal prefisso ‘ap-prendere’) nel corso della nostra relazione: che, come ogni relazione importante, è allo stesso tempo quella che manifestamente si concretizza nel rapporto tra due persone, e quella che parallelamente si sviluppa a livello implicito, anche se non sempre inconsapevole, continuando ‘mentalmente’ il dialogo anche oltre i momenti di presenza fisica. Per questo motivo, anche tenendo conto del breve tempo a disposizione, mi vorrei limitare ad un solo esempio per ciascuno dei tre livelli (che chiamerò ‘piani’) ai quali si è sviluppata la sua funzione di mentoring nei miei confronti: 3.1 Il piano cognitivo, che è il piano nel quale egli ha esercitato intenzionalmente la sua funzione di supervisione nei confronti del giovane laureato neoinserito che io ero, e la cui socializzazione gli era certo in senso lato stata affidata dall’organizzazione, ma che (come spesso succedeva con Pino) lui soprattutto ‘si era preso in carico’ autonomamente come propria funzione. Su questo primo piano, un insegnamento indimenticabile è stato per me quello relativo al riconoscimento dell’inevitabile ‘riduzionismo’ dei modelli organizzativi ‘puri’ con i quali gli studiosi cercano di rappresentare in qualche modo la realtà del funzionamento delle imprese e della pubblica amministrazione. Il mio entusiasmo di neofita-neolaureato mi portava infatti a considerare imperfetta e inadeguata la realtà delle organizzazioni con cui cominciavo ad entrare in contatto, ogni volta che la mettevo a confronto con la perfezione dei ‘modelli’ proposti dagli studiosi. Modelli che i sempre più numerosi manuali continuavano a proporre come mappe, per descrivere un territorio che (implicitamente) avrebbe dovuto essere giudicato tanto più appropriato ed efficace quanto più corrispondente alle mappe stesse. In questo modo, paradossalmente, la teoria passava dal livello descrittivo al livello prescrittivo, e lo schema imperfetto e riduttivo che era servito agli studiosi per tracciare tentativamente la mappa del territorio da esplorare diventava perciò stesso, non sempre consapevolmente, il modello perfetto e prescrittivo al quale il territorio doveva conformarsi, pena una valutazione di inadeguatezza. Ho ancora negli occhi, in maniera molto viva, il movimento delle mani con le quali Pino cercava di rappresentare visivamente, al neofita che ero, la realtà dei modelli organizzativi ‘in atto’ che lui intendeva esprimermi, e che mi proponeva di considerare come degli elastici continuamente in tensione, a causa del continuo intervento del management e delle persone che quei modelli abitavano, e a cui contribuivano ogni giorno a dare una forma in parte diversa da quella ‘prescritta’, e a essi irriducibile. Ma tutto questo non già per un qualche ‘difetto della realtà’ rispetto alla purezza adamantina della teoria (come io ero propenso ingenuamente a ritenere) ma piuttosto per i limiti stesi della teoria, a fronte della complessità e della varietà della realtà. Quella realtà che oggi, un poco più saggio di allora, personalmente avverto meravigliosamente interpretata, su un piano non solo/tanto organizzativo, quanto esistenziale, da Marcel Proust, laddove scrive di ‘quella permanente imperfezione che è, propriamente, la vita’. 3.2 Il piano emotivo, che è il piano nell’ambito del quale, affiancando Pino (come ogni tanto mi accadeva e come ancor più spesso cercavo di fare, in una sorta di shadowing non strutturato) ne osservavo i comportamenti nell’intento di ‘carpirne il segreto’ . Fino al punto, in qualche caso, di sorprendermi ad imitarne alcuni atteggiamenti o posture, o a riproporne alcuni motti tipici: che come sappiamo è l’indicatore al quale i pedagogisti danno il nome di mimesis e gli psicologi quello di modeling, per segnalare il processo di transfert attraverso il quale l’allievo si trova progressivamente, in genere inconsapevolmente, ad assumere a riferimento il maestro-tutor-mentore. Nel tentativo di ‘guardare il mondo con i suoi occhi’, che significa ‘interpretare il mondo con la sua mente’, che Implica identificarsi con lui: con tutta la fecondità, e insieme con tutti i rischi, di processi di questo genere. Su questo secondo piano, il rapporto con Pino ha rappresentato per me (molti anni prima che nella letteratura manageriale italiana cominciassero ad abbondare i testi dedicati a questo tema) un’occasione indimenticabile per osservare ‘in azione’ (e quindi nel suo farsi) una esperienza esemplare di ‘leadership narrativa’ e di sensemaking (che studiosi come Karl Weick avrebbero contribuito a portare all’attenzione di tutti. La sua indubbia capacità di analisi dei fenomeni comunicativi, la sua straordinaria capacità di argomentazione, la sua inesauribile capacità di affabulazione, sia considerate in sè, sia (ancor più) collocate al servizio della strategia politico-organizzativa, facevano di lui un prototipo travolgente e originale di quello che poi la letteratura tecnico-specialistica si sarebbe incaricata di studiare e di rappresentare come modalità di leadership emergente. Una modalità centrata sul racconto (poi sarebbe arrivato lo storytelling) e sul sensemaking collettivo, sul proporre un senso per gli eventi e ‘costruire una storia’ nella quale tutti i soggetti organizzativi si potessero riconoscere. Restano per me memorabili, a questo riguardo, le pause pranzo alla sala riunioni con tutto il personale della sede regionale (dal segretario generale alle operatrici del centralino) durante le quali ogni giorno Pino tesseva abilmente le fila della sceneggiatura nella quale proponeva, implicitamente, a ciascuno di riconoscersi: riscrivendone ogni giorno il testo, con cura, sempre attento a fare in modo che ciascuno vi avesse una propria parte, e che nessuno fosse escluso dalla rappresentazione, così che questa riguardasse sempre anche ciascuno. L’attenzione quasi maniacale al racconto, ai personaggi e ai ruoli, e la descrizione di soggetti ed eventi anche in forma grafica per suggerire, accompagnare, e rinforzare la narrazione di specifici eventi e la loro riconducibilità alla trama della storia nel frattempo consolidata sono state, probabilmente, il risultato allo stesso tempo di elementi diversi e convergenti:
Questo era Pino, e questa era la sua capacità rara di fornire insight, illuminando con poche parole lo spazio che condivideva con il suo interlocutore. 4. Postilla In conclusione, vorrei svolgere un’ultima considerazione, anche se sono consapevole che potrebbe apparire a tutta prima un poco depressiva: perchè in realtà, a ben vedere, essa ci restituisce un pensiero e un sentimento forte di ciò che Pino è stato per tutti noi che siamo qui, e della ragione per cui ci siamo. Alcuni anni or sono, quando venne improvvisamente meno un carissimo amico e collega, con il quale avevo condiviso esperienze professionali importanti, venni sollecitato a dedicare alcuni pensieri al suo ricordo, e scrissi allora che la sua scomparsa mi aveva reso chiaro (come mai mi era capitato prima) che con lui era scomparso ‘uno sguardo, una prospettiva sul mondo, un modo originale ed irripetibile di vedere, analizzare, interpretare le cose’ e che la sua unicità mi aveva ‘aiutato a ri-scoprire (proprio io, psicologo) l’unicità di ciascuno, la assoluta specificità dello sguardo, del percorso e del discorso di ciascuno, che possiamo in qualche caso ap-prendere’. Ebbene molto tempo dopo, leggendo ‘Paura liquida’ di Bauman, mi sono imbattuto in questa frase: ‘Jacques Derrida, parlando dei tre choc da lui subiti nel 1990, quando apprese della scomparsa, avvenuta in rapida successione, di Althusser, Benosit e Loreau, ha osservato che ogni morte è la fine di un mondo, ogni volta unico, che non potrà più tornare né rinascere. Ogni morte è la perdita di quel mondo, per sempre e irreparabilmente. La morte è, potremmo dire, il fondamento empirico ed epistemologico dell’idea di unicità’. Non avevo mai letto quel passo di Derrida, né ancora quello di Bauman: ma la riflessione ‘pubblica’ sulla mia esperienza ‘privata’ mi aveva portato ad esprimere una considerazione che a me rammenta la ‘indissolubilità’ tra soggetto e sguardo, prospettiva, e (dunque) competenza. Pino è stato certamente unico. Sta a ciascuno di noi, e alla nostra altrettanto certa unicità, fare in modo che il suo sguardo rimanga vivo e che il mondo possa continuare ad essere visto anche ‘con il suo sguardo’ e raccontato con il suo linguaggio. DIREZIONE D’ORCHESTRA E ETICA MANAGERIALELa prematura scomparsa di Ezio Bosso ha, comprensibilmente, contribuito alla speculare comparsa sui social e sul web di numerosi filmati, interviste, riprese, ricordi di questo personaggio straordinario.
Ora che il flusso delle citazioni è rallentato, non è quindi per allinearmi alla emozione collettiva che propongo qui a mia volta un breve filmato tratto da una sua intervista ad opera di Iannaccone nell’ambito della sua trasmissione ‘I dieci comandamenti’, sollecitandovi a prenderne visione, e soprattutto ad ascoltarne attentamente le parole. È invece per riconoscere il senso profondo che ho trovato in queste parole, e per la profonda suggestione che credo non possano non creare in chiunque svolge un ruolo di coordinamento e/o manageriale, in qualsiasi tipo di organizzazione (economico-produttiva, sociale, artistica, sportiva, politica, istituzionale…). Il direttore che ‘si prende cura’ di coloro che suonano con lui. La dimensione di ‘inclusione’ che connota qualsiasi attività collettiva. Lo scopo per cui si studia e ci si esercita per ore e ore: ‘non per essere migliori, ma per migliorare. Perché quando io miglioro me stesso, anche il mio compagno suona meglio’. E tanto altro, che il mio commento rischierebbe di impoverire. Una autentica lezione di leadership, e di etica manageriale. ‘PEOPLE FIRST’ TRA TEORIA E PRATICA: UNA DISTANZA INEVITABILE?Ritengo opportuno e corretto premettere, per scrupolo, che il video di cui state per prendere visione contiene anche alcune espressioni di una certa volgarità, per quanto da tempo ormai di uso corrente anche sui mezzi di comunicazione di massa.
Nonostante ciò, ho deciso di riproporlo ‘così come è’ (come faccio quando tengo conferenze o seminari o giornate di aula, sui diversi temi che emergono in filigrana da questo pur breve video) in particolare per due motivi:
Che poi, anziché di parlare di un motivo di natura emotiva e di uno di natura razionale, sia forse più opportuno parlare di motivi entrambi di una diversa razionalità, è questione molto interessante che merita una specifica trattazione, alla quale penso di dedicare un prossimo intervento. Stavo per dimenticare il titolo (del volume e del film): ‘Volevo solo dormirle addosso’ |
ALTANColoro che hanno avuto la pazienza di guardare fino al termine lo spassoso e istruttivo monologo di Ivano Marescotti sull’identità della ‘vera Romagna’, forse ricorderanno che anche lui si richiama alla straordinaria vignetta di Altan (che a sua volta sembra ne sia debitore a Flaiano), nella quale uno dei suoi stralunati personaggi, fissando il lettore come si fissa il vuoto, afferma sconsolato e rassegnato ‘mi vengono in mente opinioni che non condivido’.
Ascoltare ‘le opinioni che non condividiamo’ (quelle degli altri, ma soprattutto le nostre) dovrebbe rappresentare per tutti una nuova etica del pensiero, ma io ritengo ci sia qualcosa di ancora più importante: perché questo è anche l’unico modo che conosco per praticare una nuova etica dell’azione. UN ANNO NELLA VITA
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Questa vignetta di Altan (anche se fatico a definire in un modo così riduttivo le sue opere, almeno per il significato che viene attribuito comunemente a questo termine), già così meaningful per me dalla fine degli anni ’70 quando la incontrai per la prima volta, esprime oggi in modo sintetico ed immediato, come spesso capita con questo autore, una verità per dire la quale avremmo bisogno (almeno, io avrei bisogno) di tante più parole, e certamente meno efficaci.
Come per altre immagini ‘storiche’ di questo autore, alcune delle quali ho intenzione di condividere in alcuni dei prossimi appuntamenti, la visione stimola una associazione immediata al tempo presente. |
A me ad esempio viene da pensare a quanto, dei discorsi anche recenti di parte della politica, delle parti sociali, dell’università e degli ‘esperti’, ma anche del mondo delle imprese e delle professioni, del marketing, ed anche di tutta la variegata gamma dei mezzi di comunicazione (tv, giornali), appaia oggi improvvisamente come irrimediabilmente datato: quando non addirittura irresponsabilmente vuoto, offuscato dal narcisismo, da uno smodato spirito competitivo e dall’invidia, e illuso di poter vivere di una rendita senza fine.
Nel gioco delle libere associazioni (che libere non lo sono per nulla, come sappiamo) mi viene da proseguire con una ulteriore citazione (troppo nota questa volta perché ne richiami l’autore) ‘Non chiedere per chi suona la campana. La campana suona per te’.
Per la mia parte, sto cercando di non cadere nella tentazione di non rispondere.
Nel gioco delle libere associazioni (che libere non lo sono per nulla, come sappiamo) mi viene da proseguire con una ulteriore citazione (troppo nota questa volta perché ne richiami l’autore) ‘Non chiedere per chi suona la campana. La campana suona per te’.
Per la mia parte, sto cercando di non cadere nella tentazione di non rispondere.
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(o meglio entrambre, se le emozioni sono forme iperveloci di cognizione).
IVANO MARESCOTTI - MONOLOGO
A proposito di integrazione e identità, temi affrontati nell'articolo della sezione Il Tempo Presente.
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