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Il Tempo Presente
Tra il prima e il dopo c'è il mentre
Lanfranco Pace

L'INTEGRAZIONE COME BENE COMUNE (1/4)

2/4/2020

7 Commenti

 
Il gioco di parole di alcuni giorni fa del Presidente del Consiglio  (‘Oggi di fronte alla sfida del Coronavirus si impongono tre parole d’ordine: cooperare, cooperare, cooperare') ha richiamato l’attenzione (come sempre più spesso avviene di fronte alle sfide della modernità e della complessità) sulla esigenza ‘vitale’ di reciproco aiuto, supporto, condivisione, collaborazione, coordinamento tra soggetti, strutture, istituzioni per potere sopravvivere, evolvere, svilupparsi, ‘avere successo’.
A ben vedere, cooperare, collaborare, coordinarsi sono tutte dimensioni in qualche nodo riconducibili (‘linkabili’, come si direbbe oggi) al concetto di ‘integrazione’.
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Integrazione’ è un termine in effetti evocato con intensità crescente negli anni recenti, in diversi contesti e con diversa finalità (sul motore di ricerca Google, digitandola si ha accesso a circa 38.000.000 di risultati):
 
  • in ambito politico-istituzionale: dove si fa spesso riferimento ad obiettivi di integrazione economica (ad esempio tra i Paesi UE), di integrazione sociale (un cui sinonimo oggi spesso richiamato è il concetto di inclusione: e questo riguarda tutti coloro che incontrano difficoltà nell’accesso al lavoro, ai servizi, e più in generale alla fruizione di quelli che vengono chiamati ‘nuovi diritti di cittadinanza’), di integrazione sociale e culturale (quando ci si riferisce ad esempio alle problematiche degli immigrati); oppure si fa riferimento all’integrazione tra le diverse politiche, e tra i diversi sub-sistemi deputati alla loro programmazione e gestione (quando si parla di integrazione inter-istituzionale, orizzontale e verticale)
 
  • in ambito organizzativo-manageriale: dove ad esempio si auspica e si cerca di raggiungere l’integrazione tra le funzioni ed i processi aziendali, necessaria per raggiungere obiettivi di efficacia, di efficienza e di qualità dei prodotti e dei servizi (quell’integrazione che, come vedremo, proprio il processo di sempre maggiore specializzazione di quelle funzioni e di quei processi - specializzazione alla quale l’azienda non si può sottrarre, pena la perdita del suo mercato - rende necessaria); o l’integrazione tra azienda e fornitori - fino alla co-makership; o tra aziende dello stesso distretto e/o della stessa filiera o piattaforma produttiva (alcuni studiosi di questa tematica hanno da tempo individuato addirittura la figura definita ’integratore di sistema’ quale figura-chiave per lo sviluppo dei distretti)
 
  • in ambito educativo-formativo: dove ad esempio si parla di integrazione scolastica dei disabili ed degli immigrati, ma anche, ad un altro livello, di integrazione tra scuola e formazione professionale, e tra queste e le imprese (si pensi alle diverse forme di alternanza e all’apprendistato); e dove l’integrazione costituisce un requisito di qualità e di efficacia dei curricoli e dei percorsi formativi (integrazione tra materie/discipline, tra moduli/unità didattiche, tra docenti) in funzione dell’apprendimento: e si tratta di un bisogno così forte da generare, anche in questo caso, il bisogno di figure dedicate al ruolo di ‘integratori’ (si pensi al tutor, ad esempio, nella sua versione più evoluta)
 
  • nell’ambito delle politiche del lavoro e dei servizi per l’impiego: dove il passaggio, così spesso evocato, dalla ‘cultura degli adempimenti’ alla ‘cultura del servizio’ trova da qualche tempo nell’integrazione (tra strutture, servizi, operatori e competenze; tra pubblico e privato; tra livelli di intervento del pubblico; etc.) la sua risorsa cruciale ed il suo vincolo (culturale, organizzativo e strutturale); ed anche in questo caso, la crescente rilevanza attribuita ai processi di accompagnamento alla costruzione di progetti professionali ed alla ricerca del lavoro da parte delle persone esprime il bisogno crescente di ruoli che siano in grado di supportare l’integrazione di quel puzzle di elementi diversi dei quali è sempre più fatto il percorso di accesso alla vita attiva, nell’orizzonte di flessibilità, di temporaneità (non di rado di precarietà), di ‘liquidità’ (direbbe Bauman) che caratterizza lo sviluppo delle relazioni sociali e lavorative (il più unanimemente riconosciuto di tali ruoli a livello internazionale è quello di ‘case manager’)
 
  • nell’ambito socio-sanitario: dove l’affermarsi del concetto di ‘rete’ (ormai diventato concetto di riferimento in molti campi, fino a dare luogo negli ultimi anni ad un settore specifico di studi ed analisi: la ‘scienza delle reti’) ha rappresentato con particolare emblematicità l’istanza alla cooperazione ed al coordinamento degli interventi, in funzione della loro efficacia e qualità per il cliente-utente-paziente
 
  • ma anche nei trasporti e nella mobilità (dove si parla di sistemi per la ‘integrazione territoriale’), nell’informatica e nell’elettronica (dove l’innovazione sembra passare dall’integrazione dei microprocessori; dall’integrazione dei linguaggi e dei sistemi operativi e dalla loro ‘interoperabilità’; dall’integrazione dei sistemi hardware e software: fino alla esplosione recente della galassia di termini e significati riconducibili alla formula ‘industria 4.0’).
 
Vorrei riflettere con voi, quindi, sulle ragioni di questa diffusione ‘virale’, e chiedermi che cosa vi sia di trasversale, che accomuna in qualche modo il significato che a questo termine viene attribuito nei diversi contesti.
 
Cercherò di parlare di integrazione non come asettico studioso della materia che osserva i fenomeni con il filtro del racconto di altri, quanto piuttosto come persona che ha incontrato, e ancora incontra, questo tema (come dover essere desiderabile; come obiettivo da raggiungere; come problema da risolvere; e quindi come istanza da strumentare operativamente, per renderla concretamente possibile: to make it happen) in molti luoghi e momenti del suo agire professionale.
 
Come prospettiva, vorrei assumere quella di una persona che su queste pratiche cerca eticamente di riflettere, anche scrivendone: il che mi pare particolarmente importante, oggi che si parla tanto di ‘agire riflessivo’ come requisito cruciale perché l’attività (il ‘fare’) diventi ‘esperienza’, e perché questa si sviluppi in apprendimento.
 
Parlerò a partire dalla pratica, quindi: nella convinzione che ‘il pensiero procede dall’azione’.
 
E una conferma di questo principio, con riferimento al tema di questa mia introduzione, è l’osservazione (che ci viene anch’essa dall’esperienza) che ‘si impara ad integrarsi integrandosi’: e cioè che il modo migliore per ottenere risultati quando le persone, le organizzazioni o i sistemi cercano di funzionare ispirandosi al principio-guida dell’integrazione e traducendolo in ‘cose concrete’ (servizi, processi di lavoro, comportamenti) è quello di sperimentarlo concretamente, di cooperare, collaborare, condividere, coordinarsi con gli altri, di ‘sporcarsi le mani’, di calarsi in una dimensione di esperienza: sulla quale riflettere, appunto, ma a partire da dati di realtà ed imparando dalla pratica.
 
Poiché l’integrazione è il risultato di comportamenti, e i comportamenti sono il risultato della ‘cultura’ delle persone (le loro rappresentazioni, i loro valori, il loro modo di vedere e di intendere le cose).
 
E le ‘culture’ sono sempre il risultato di una storia, e cioè di una esperienza che ha una sua consistenza, e una sua durata nel tempo: che è il motivo per cui da un lato sono così ‘resilienti’ (e questa è una risorsa essenziale, quando serve), e dall’altro sono così ‘dure a morire’ (e questo invece è un bel problema, quando occorre cambiare).
 
Questo significa anche che se l’integrazione è un obiettivo, e cioè se si vuole ottenere (come le istituzioni ed il management organizzativo spesso si propongono) l’integrazione come risultato, occorre avere la pazienza, la perseveranza e la lungimiranza di costruire una storia, e la capacità di fare accadere in questa storia ‘le cose giuste’, e cioè di prendere quelle decisioni (di governo del sistema; di governo dell’organizzazione) che sole sono in grado di favorire questo obiettivo/risultato.
 
Come cercherò di argomentare nei prossimi interventi, ciò significa che occorre creare le infrastrutture dell’integrazione, e questa è una responsabilità innanzitutto istituzionale e manageriale.
 
Naturalmente, ciò non significa che si tratti di una responsabilità esclusivamente istituzionale e manageriale: ma procediamo con ordine.
 
Nel prossimo intervento cercherò di analizzare le ragioni e le principali difficoltà del ‘fare integrazione'.
7 Commenti
Claudio Fontanini
5/4/2020 09:51:40 am

Caro Giovanni,
Come sai ti leggo sempre con piacere e le tue riflessioni sul concetto di integrazione ai vari livelli mi trovano d'accordo. Osservando la gravissima crisi sanitaria in cui siamo precipitati, a cui seguirà una ancora peggiore crisi economica e a come hanno reagito fino a ora quelle che tu chiami "infrastrutture dell'integrazione", direi peraltro che, a cominciare dall'Unione Europea, mi sembra siano andate in frantumi alla prima vera difficoltà seria. E, chissà perchè, mi vengono in mente le parole di Niels Liedholm, già calciatore e poi allenatore, sugli schemi calcistici. "Io sono bravissimo a disegnare schemi su lavagna ma poi arbitro fischia e calciatori si muovono".

Risposta
Pier Giovanni Bresciani
11/4/2020 01:17:04 pm

Ciao Claudio.

La questione importante che poni a me sembra faccia riferimento alla frequente distonia tra enunciazioni politico-strategiche e loro concreta attuazione. Penso anche il dibattito che in questo momento accompagna la applicazione del DPCM che contiene le misure anticrisi approvate dal Governo. Stiamo riscoprendo, direi finalmente, la vischiosità e l'attrito dei processi concreti di implementazione (organizzativa, amministrativa, procedurale) delle strategie e delle politiche. Il problema è certo universale, ma nel nostro Paese abbiamo sviluppato una particolare propensione alla distanza tra enunciazioni e loro concreta attuazione. Riprendendo il titolo di uno dei miei volumi più recenti, 'tra il dire e il mare c'è di mezzo il fare'.... Se continuerai, come mi auguro, a seguire il filo della riflessione che propongo, troverai che a questo punto dedicherò una specifica attenzione.

Risposta
Giuseppe Nicola Vallario
6/4/2020 05:55:07 pm

Tema che mi interessa molto e che seguirò con piacere.
Io penso che integrazione abbia a che fare con sinergia e con le reti che consentono le sinergie.
Quindi se da una parte cade nella responsabilità innanzitutto istituzionale e manageriale la creazione delle infrastrutture dell’integrazione, dall'altra le sinergie 'fluiscono' se i nodi lo consentono.
Ho una mia idea del fattore che rende cooperativi i nodi, ma aspetto il prossimo intervento
Un cordiale saluto
Giuseppe Vallario

Risposta
Pier Giovanni Bresciani
11/4/2020 01:19:58 pm

Buongiorno.

Credo che nei prossimi miei interventi su questo tema troverà richiami anche alle parole chiave e lei indicato.

Risposta
Mario Vitolo
8/4/2020 04:33:26 pm

Pier Giovanni, grazie per questo spazio di riflessione e confronto.
INTEGRARE mi sembra un archetipo col quale si cimentano da millenni persone e poi organizzazioni e istituzioni; in matematica ha portato a un concetto di integrazione rappresentato da un quasi 4 secoli da una S allungata, che sta per "summa".
Ma forse non è (o non solo) la somma l'idea di integrazione che si muove nel sociale, nelle organizzazioni, nella politica e che ispira il tuo articolo, dove parli di integrazione come link.
Integrare, integrante, integrato, integrale, integralista.
La stessa radice oscilla tra l'intero e il molteplice, il puro e il meticcio, l'omogeneo e il vario. Per come tendiamo a praticarla socialmente, l'idea di integrazione contrasta con quella di esclusione (il cui opposto è però "inclusione"). A me sembra però inmportante non dare per scontato senso e scopo dell'integrazione, per evitare il rischio dell'omologazione.
Giorno per giorno scopriamo l'importanza e le possibilità che ci offrono le tecnologie della connessione, della circolazione e dello scambio; enormi flussi di dati e moli di informazione vengono elaborati e integrati a livelli sempre più sofisticati fino a consentire di anticipare i nostri bisogni e le risposte a questi bisogni, ma ne scopriamo anche i rischi, fino alla totale assuefazione alla totale rinuncia al controllo della riflessione sui nostri bisogni e della consapevolezza di essi. Con il bisogno e la ricerca di integrazione, mi sembra che cresca la necessità di tutele.
Gli stimoli del tuo articolo mi sembra che traccino una traiettoria con la quale ci accompagnerai ad approfondire anche questi aspetti.

Cari saluti
Mario Vitolo

Risposta
Pier Giovanni Bresciani
11/4/2020 01:31:48 pm

Buongiorno Mario.

In effetti il tema delle tutele che proponi, come associato alla esponenziale evoluzione dei dispositivi e delle tecnologie, è un tema molto importante, che forse nella mia riflessione ho finora sottovalutato.
Mi verrebbe da dire, d'istinto, che la prima forma di tutela necessaria è quella riferit alla nostra intelligenza collettiva, che come sostengo da molto tempo è molto più consistente di quella che siamo disposti a riconoscerci. Se questo blog potesse costituire un piccolo spazio che, nel tempo, consente di alimentarla, curarla, riconoscerla attraverso lo scambio e la riflessione comune, ciò sarebbe per me un risultato straordinario, e comunque un risultato è che 'vale la pena'.
Ma questo, come dice una canzone cui sono legato, 'lo scopriremo solo vivendo'...

Risposta
UGO VIRDIA
8/4/2020 04:40:11 pm

attendo le sue ulteriori riflessioni,
con stima

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