Premessa In questo breve contributo (di qui il termine ‘appunti’) affronterò il tema, particolarmente attuale, della occupabilità, cercando di argomentare:
Occupabilità. Alcuni brevi richiami al significato del termine Nel ‘Dizionario di Economia e Finanza’ dell’enciclopedia Treccani, l’occupabilità viene indicata come un neologismo che indica ‘la capacità delle persone di essere occupate o di saper cercare attivamente, di trovare e di mantenere un lavoro’. Sempre in tale contesto, si precisa che l’occupabilità si riferisce dunque ‘all’abilità di ottenere un impiego (un primo o nuovo impiego) quando necessario, effettuando transizioni da una condizione di non lavoro oppure da una precedente diversa occupazione’. Nel testo si rammenta che ‘l’occupabilità rappresenta un pilastro delle strategie europee per l’occupazione da quando ancora, alla fine del secolo scorso, è stata assunta a livello politico-istituzionale della c.d. employment strategy’(insieme agli altri pilastri, rappresentati dall’imprenditorialità, dall’adattabilità e dalle pari opportunità)[1]. È interessante osservare che secondo l’employment strategy UE ‘lo strumento principale per perseguire l’occupabilità sono le politiche del lavoro e gli investimenti in formazione’. Per i lavoratori essa dipende (afferma il testo) ‘dalle conoscenze, abilità e competenze possedute, anche grazie alla formazione permanente’, perché si ritiene che nel mercato del lavoro attuale siano più frequenti e rilevanti i fenomeni di mismatch piuttosto che di eccesso di offerta: per questo motivo l’accento viene posto sulla formazione e sulla riqualificazione anche in età adulta (skilling, reskilling, upskilling). Si osserva che si è ampliata in misura particolarmente consistente la platea dei soggetti destinatari potenziali di tale tipo di interventi, sulla base della considerazione che ciascun segmento del mercato del lavoro ha le proprie specifiche debolezze e fragilità, ed è quindi destinatario di servizi di supporto e di interventi formativi finalizzati a migliorarne, appunto, il grado di occupabilità. Al di là della molteplicità e della eterogeneità dei significati che una ricognizione sul web consentirebbe di trovare associati a tale termine quindi, l’occupabilità può essere indicata (sinteticamente e in modo ‘molare’) dal grado di vicinanza tra un determinato individuo e una specifica situazione occupazionale, da lui valutata almeno temporaneamente come adeguata, o quantomeno soddisfacente (in un determinato contesto, in un determinato momento, in relazione a determinati vincoli). Tale grado di vicinanza può anche essere misurato ed espresso in termini numerici, purché vi sia la consapevolezza che si tratta della risultante molare dell’interazione di un insieme di fattori eterogenei, alcuni dei quali sono evidentemente al di fuori della possibilità di intervento non solo dell’individuo, ma addirittura degli attori socio-istituzionali (ai quali si continua comunque, con enfasi eccessiva, ad attribuire in genere il titolo di decisori): e che tale misurazione non potrà quindi che dare luogo ad un risultato temporaneo e contingente. Dall’occupazione all’occupabilità. Rischi e opportunità di un cambio di paradigma Se vi è mai stato un tempo (si pensi a metà del secolo scorso) nel quale l’obiettivo dei servizi al lavoro (che significativamente venivano chiamati uffici di collocamento), per chi si rivolgeva alla struttura pubblica (che operava allora, in genere, in una logica distributiva/redistributiva), era costituito ‘naturalmente’ dalla occupazione (il collocamento, appunto), alla quale si accedeva in genere per graduatoria numerica in una fase specifica dell’esistenza (una volta terminati o interrotti definitivamente gli studi)[2], da diversi decenni le cose sono progressivamente e consistentemente cambiate. Tra un individuo alla ricerca dell’occupazione e l’effettivo perseguimento di tale obiettivo sono infatti progressivamente intervenuti, e continuano ad intervenire, sempre più ‘eventi’ che rappresentano da un lato altrettanti passaggi del percorso individuale verso l'occupazione, e dall'altro lato altrettanti strumenti/risorse rispetto a tale finalità. Le persone non passano più ‘direttamente’ dalla scuola alla occupazione, oppure dalla disoccupazione al lavoro (un lavoro magari già a tempo indeterminato, dopo il previsto periodo di prova): sempre più spesso, invece, gli individui sono attori/protagonisti di percorsi complessi, a volte ricorsivi (nel senso che ripercorrono ‘passaggi’ dello stesso tipo) nell’ambito dei quali, come in un puzzle, vengono sempre più frequentemente a comporsi itinerari personalizzati e/o individualizzati, che considerati nel loro insieme costituiscono ogni volta la forma specifica e ‘unica’ dell’approccio di quel determinato individuo al ‘lavoro’, per come lui/lei se lo immagina, lo desidera, lo teme, si sente in grado di affrontarlo, etc.. Itinerari contestuali ed ogni volta ‘unici’, dunque, per quanto composti dagli stessi tipi di elementi: un tirocinio curriculare, un corso sulla ricerca attiva del lavoro, un servizio di informazione orientativa, un tirocinio extracurriculare, una work-experience, un percorso di apprendistato, una co.co.pro, un’assunzione a tempo determinato o in somministrazione, un corso di formazione continua in impresa, etc. Per utilizzare una analogia facilmente comprensibile, è quanto avviene nella musica e con il linguaggio: nei quali (come ogni giorno sperimentiamo) a partire da un numero limitato di elementi si possono comporre ‘combinazioni’ infinite e specifiche. In questo nuovo scenario, il risultato originariamente/tradizionalmente atteso in esito all’intervento del mediatore pubblico (l’occupazione finale-definitiva, identica a sé stessa, passibile semmai di sviluppi professionali e di carriera ‘verticali’) ha prima cominciato ad allontanarsi nel tempo; e poi ha continuato progressivamente a cambiare natura, fino a trasformarsi ancora in una occupazione, certo: ma ‘dis-identica’, mobile non solo verticalmente ma anche trasversalmente, sostanzialmente continua ma anche eterogenea; che sempre più spesso viene perseguita mediante un percorso che assume a volte la forma paradossale della ‘caccia al tesoro’ (quando non del ‘gioco dell’oca’, con le sue frustranti e penalizzanti regressioni). Ciascuno dei ‘movimenti’ compiuti in questo articolato (e non di rado frammentato) percorso di transizione[3] (dal non-lavoro al lavoro; ma anche dal lavoro al lavoro), rappresenta quindi un passo ulteriore nella acquisizione di quella occupazione che resta con tutta evidenza, comunque e sempre, la finalità principale (per quanto implicita, non riconosciuta, se non addirittura ‘rimossa’ nei documenti di programmazione istituzionali): anche se l’occupazione che oggi è, eventualmente, possibile impegnarsi a favorire è non già/più la originaria e tradizionale occupazione stabile nel tempo e identica nella natura, ma è semmai/piuttosto la nuova occupazione discontinua nel tempo e dis-identica nella natura, che ho sopra richiamato e che è l’unica possibile nel mercato del lavoro e nell’economia attuale. Se questa è, come a me sembra, la situazione attuale, allora che il soggetto pubblico si sia fatto progressivamente garante della occupabilità, e non più (solo) dell’occupazione è un comportamento che può essere interpretato in due modi diversi. Da un lato, in negativo, potrebbe apparire come uno scaltro atto di propria deresponsabilizzazione rispetto a tale fine, come se il soggetto pubblico riconoscesse la propria responsabilità nel ‘creare le condizioni’ di percorso/processo affinché l’individuo alla ricerca del lavoro possa aumentare le proprie chance di occupazione; ma allo stesso tempo volesse chiarire di non ritenersi responsabile ‘dell’ultimo miglio’, e cioè della finalizzazione di tale percorso/processo: finalizzazione che quindi rimarrebbe ‘in carico’ esclusivamente al soggetto alla ricerca di occupazione. È forte il rischio, in una prospettiva di tale genere, di deresponsabilizzare e quindi ‘assolvere’ il soggetto pubblico rispetto agli esiti del percorso/processo, e allo stesso tempo di responsabilizzare, e quindi colpevolizzare, l’individuo: facendone, paradossalmente, l’unico artefice del proprio destino occupazionale (pur a fronte di risultati di dati di ricerca scientifica che continuano ad essere di segno ben diverso). Per inciso, a partire da ciò si potrebbe avviare una riflessione molto interessante e di rilievo operativo (che non ho qui lo spazio per approfondire) sugli effetti del ‘combinato disposto’ tra iper-responsabilizzazione individuale e introduzione del principio di condizionalità per poter usufruire, da parte del soggetto, del supporto delle strutture che erogano servizi: iper-responsabilizzazione (con correlata super-egoica colpevolizzazione) che contribuisce ulteriormente ad appesantire il già pesante fardello cognitivo-emotivo che ciascun individuo è chiamato a caricare sulle proprie spalle, mentre affronta i diversi step del percorso/processo ‘verso l’occupazione’. Dall’altro lato, c’è però anche un modo diverso e ‘positivo’ di interpretare le ragioni e le implicazioni del cambio di paradigma dalla occupazione alla occupabilità. Riconoscere infatti che l’occupazione, ceteris paribus (e cioè a parità di altre condizioni/variabili) è tanto più perseguibile/perseguita quanto più è alta la qualità dei diversi step (i ‘pezzi di esperienza’ e/o le ‘cose’ cui mi sono riferito all’inizio) che sempre più spesso si interpongono tra l’uscita dallo stato precedente (studente, inoccupato, occupato ma intenzionato alla mobilità, disoccupato, etc.) e l’ingresso nello stato di ‘occupato’ (per quanto temporaneo): riconoscere questo implica riconoscere la necessità che ciascuno di questi step costituisca in sé un’esperienza di qualità per il soggetto, ma allo stesso tempo riconoscere che è assolutamente necessario strutturare e rendere disponibile una funzione e/o un ruolo dedicati ad aiutare, supportare, accompagnare gli individui in questo loro percorso (che nel suo insieme ‘dà forma e sostanza’ alla loro occupabilità). Ciò perché non è tanto l’aver fatto un tirocinio, e/o l’avere fruito di un servizio di consulenza orientativa, e/o avere fatto qualche mese di occupazione come lavoratore interinale (etc.) a generare di per sè l’effetto-occupabilità, aumentandone eventualmente il valore in termini di indice numerico; quanto piuttosto (insieme a ciò) l’avere potuto disporre di un supporto e di un accompagnamento personalizzato, e l’essere riusciti a (l’essere stati messi in grado di, anche/proprio grazie a tale supporto e accompagnamento) fruire proficuamente di tali step, riuscendo a utilizzare come risorsa l’insieme di esperienze ‘attraversate’, e a collocarle in una prospettiva ‘biografica’, conferendo ad esse ‘un senso per sé stessi’[4]. Il che significa, in estrema sintesi, che per favorire l’occupabilità (definita come esito ‘molare’ di un insieme di esperienze/servizi di natura diversa che configurano un percorso individuale che si sviluppa nel tempo), garantire la qualità delle singole esperienze è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Quantomeno altrettanto necessario, infatti, è garantire la qualità dell’aiuto, del supporto e dell’accompagnamento che vengono messi a disposizione del soggetto durante il percorso, e del processo di riflessione, di autoconsapevolezza e di attivazione personale nel quale lo si coinvolge. L’occupabilità come processo e come risultato Come abbiamo potuto finora osservare, occupabilità è uno di quei termini che può essere utilizzato allo stesso tempo per indicare sia un processo che il risultato in esito allo stesso. Quando si parla di occupabilità come risultato delle politiche attive per il lavoro e dei servizi per l’impiego si tende infatti generalmente a fare riferimento allo stato dell’individuo destinatario delle diverse misure/interventi: stato in ragione del quale lo stesso individuo viene definito appunto molarmente come più o meno ‘occupabile’. Quest’ultima considerazione implica che l’occupabilità è una caratteristica continua e non discreta: si danno infatti gradi/livelli diversi di occupabilità delle persone, generalmente ‘misurati’ mediante la stima della loro maggiore o minore ‘distanza’ dall’occupazione effettiva. Si può affermare quindi che attualmente l’occupabilità (nella accezione qui richiamata all’inizio, quella proposta dal Dizionario di Economia e Finanza) rappresenta l’obiettivo delle politiche e dei servizi, e ancor più precisamente il loro risultato atteso. Ciò perché si è potuto riscontrare nel tempo che, in particolare con i mutamenti di scenario degli ultimi anni, la migliore proxy possibile della occupazione è costituita appunto dalla occupabilità (anche definibile come esito dell’insieme eterogeneo di esperienze che caratterizzano il percorso per perseguirla, l’occupazione). Ciò rende ragione del perché sia legittimo interpretare l’occupabilità:
Capire l’occupabilità. La metafora della competenza L’utilizzo di metafore per cercare di fornire elementi di chiarimento nelle situazioni nelle quali l’argomentazione razionale (come è stato finora, necessariamente, anche in questo mio contributo) assume un linguaggio alquanto gergale e ‘tecnico’ (con il duplice rischio della freddezza da un lato, e della limitata comprensibilità dall’altro) costituisce un artificio retorico e uno strumento di comunicazione di particolare efficacia. Per questo motivo, nella consapevolezza di avere finora corso questo duplice rischio, propongo di seguito una breve suggestione, finalizzata a ‘pensare metaforicamente’ al costrutto dell’occupabilità. Utilizzo a tale riguardo un elemento/significante al quale sono, per motivi diversi riferiti al mio percorso scientifico e professionale, particolarmente legato: la competenza[5]. Ritengo infatti che pensare alla occupabilità come se fosse una competenza possa contribuire in modo decisivo a ‘illuminare’ almeno un poco quello che ancora possa risultare eventualmente oscuro nel tentativo di argomentazione razionale che ho proposto nel paragrafo precedente. Che cosa significa dunque pensare alla occupabilità ‘come se fosse una competenza’? Se assumiamo a riferimento il modo in cui la competenza è stata definita nell’ambito del decreto (n. 13/2013) che nel nostro Paese ha istituito il sistema di individuazione e validazione degli apprendimenti e di certificazione delle competenze, questa viene definita come “la comprovata capacità di utilizzare […] un insieme strutturato di conoscenze ed abilità acquisite”. Secondo questa definizione quindi (che non è solo una delle tante, ma è soprattutto quella assunta a riferimento dal legislatore nel nostro Paese, e quindi è ‘vincolante’) una competenza non è tale se non è ‘confermata/bile’ da comportamenti professionali che ne costituiscono la effettiva e condivisa ‘prova’; allo stesso tempo, una competenza non è tale se non costituisce l’insieme integrato di elementi più specifici (in questo caso: conoscenze e abilità). Come si può osservare, vi è una profonda analogia tra questo modo di intendere la competenza e il modo in cui abbiamo finora considerato in questo contributo l’occupabilità: come un costrutto molare, rappresentato da un insieme integrato di elementi (servizi; esperienze; fasi; etc.) il cui livello di efficace presidio è rappresentato da comportamenti individuali che ne costituiscono in modo condiviso la effettiva evidenza. In altre parole, pensare all'occupabilità come una competenza significa pensare che c’è effettiva occupabilità quando un individuo non solo ha acquisito gli elementi che sembrano nel loro insieme comporla e ‘costituirla’ (ad esempio un tirocinio, un’informazione orientativa, una piccola esperienza di collaborazione professionale, e magari anche qualche mese di occupazione a tempo determinato, e anche la frequenza di un master universitario e di un corso sulle tecniche di ricerca attiva del lavoro), ma piuttosto, e soprattutto, se può dimostrare la sua capacità di ‘farsene qualcosa’ di tali molteplici esperienze, utilizzandole in un modo appropriato ed efficace per conseguire il suo obiettivo ‘finale’ (che continua ad essere, come in passato, l'occupazione: anche se ‘riletta’ ed attualizzata nei termini che ho cercato di proporre in queste brevi note). Così come nel caso della competenza professionale, quindi, anche nel caso della occupabilità (tanto più se la pensiamo come una ‘competenza molare’, come qui proposto) a garantirne l’efficace utilizzo in situazione e nel contesto reale, ‘qui ed ora’, e a consentire (semmai) il raggiungimento della occupabilità ‘come risultato’ cui mi sono riferito in precedenza non è:
Come suggerivo già diversi anni or sono, si potrebbe affermare che, non riuscendo con tutta evidenza a garantire all’individuo un ‘approdo’ certo alla sua navigazione nel tempestoso mercato del lavoro attuale, con un gesto di notevole abilità e scaltrezza il soggetto pubblico di programmazione abbia cercato e trovato il modo di autoassolversi, veicolando la concezione in base alla quale non spetta (più) a lui, nel mondo divenuto globalizzato, postmoderno e ‘liquido’, assicurare all’individuo-navigante/viaggiatore il raggiungimento di un qualche porto. Sulla base di tale concezione, tutto quello che si può semmai chiedere alle istituzioni pubbliche sarebbe di garantire all’individuo ‘risorse per il viaggio’: del cui esito però è l’individuo stesso a portare la responsabilità. Un viaggio la cui metafora può essere sì quella della navigazione, ma che si connota come una navigazione affrontata spesso su mezzi di fortuna e in una situazione di scarsa e temporanea definizione degli approdi (come se si trattasse di saltare da una zattera all’altra, senza necessariamente porsi - magari perché non è proprio possibile - il problema del punto di approdo; se non magari après coup, come effetto/risultato osservato ed apprezzato a posteriori…). Lo ‘slittamento’ dalla occupazione alla occupabilità quale obiettivo di riferimento delle politiche del lavoro appare significativo di tale atteggiamento: come se il soggetto pubblico di programmazione, prendendo atto della impossibilità di perseguire il primo (occupazione), identificasse nel secondo (occupabilità) ciò del quale ritiene oggi di potere rispondere, in una logica di accountability. Per un’ecologia dell’occupabilità. Alcune suggestioni Ho sostenuto in passato che la dimensione della transizione rinvia a due possibili concezioni in relazione alle variabili in grado di influenzarla, nell’immaginario corrente: locus of control interno e locus of control esterno. Ritengo particolarmente utile riproporre tali considerazioni al termine di questo contributo, perché valgono pienamente, anche con riferimento alla occupabilità (tanto più in una accezione della occupabilità come quella che ho proposto: ‘fatta’ di transizioni plurime ed anche ricorsive[7]). In realtà, scrivevo, ‘quella tra locus interno e locus esterno appare una falsa alternativa’: nel senso che la qualità del risultato del percorso/processo finalizzato a perseguire l'occupabilità (e per questa via l'occupazione, non dimentichiamolo: se pure nella ‘moderna’ concezione che ho cercato di precisare) è in realtà funzione non di uno dei due elementi (interno/esterno), bensì della loro relazione (non importa quanto simmetrica). E l’orientamento, la formazione, i servizi per l’impiego, quando funzionano, costituiscono un fattore di modulazione tra interno ed esterno, tra individuo e contesto, tra caratteristiche, storie, risorse personali da un lato e risorse ambientali dall’altro. Un fattore di modulazione non è semplicemente un’interfaccia, un connettore di due realtà date: è un elemento che agisce, che interviene su quelle realtà (l’individuo; l’ambiente), che le aiuta a cambiare per ‘accogliersi’ meglio, per convivere, per migliorare insieme, per fare emergere dal loro incontro una qualità diversa e migliore, che non era presente prima in nessuna delle due realtà prese a sé stanti (anche perché l’ambiente è, alla fine, in buona parte, ciò che la persona riesce a farlo diventare). Se il problema è quello di migliorare la relazione tra individuo e contesto, nello spazio della transizione e quindi nel percorso verso la occupabilità, allora molte sono le cose che si possono fare per migliore l’efficacia della pratica e dei dispositivi di aiuto, supporto e accompagnamento cui mi sono in precedenza riferito. Se l’occupabilità è il risultato di un viaggio, da un lato per l’individuo si tratta di ‘imparare a viaggiare’ (attrezzarsi internamente e dotarsi delle risorse e dei mezzi necessari ed utili), e dall’altro lato per i soggetti che hanno la responsabilità di supportarlo (nelle esperienze-viaggi specifici che intende intraprendere; e più in generale nell’esercizio del suo ruolo di jobseeker-viaggiatore) si tratta sia di assicurare la quantità e la qualità dei territori di accesso e degli approdi, sia di costruire le infrastrutture e i mezzi di comunicazione e di spostamento; ma anche di creare ‘disposizioni, cultura e competenze’ per il viaggio (con l’informazione, con la comunicazione, con l’addestramento e la formazione, con le reti di relazioni, con i ‘racconti’, con l’accompagnamento e la consulenza, con le ‘offerte economiche’ e cioè con gli incentivi, etc.), tenendo conto della diversità delle condizioni socio-economiche e degli atteggiamenti nei confronti della dimensione del viaggio, e della sua articolazione ‘per categorie’ e addirittura per singoli individui, e definendo conseguentemente strategie differenziate, fino alla personalizzazione. Naturalmente, l’efficacia del supporto alla transizione (e quindi al percorso per perseguire il risultato/occupabilità) sarà tanto maggiore quanto più l’azione riguarderà non soltanto ‘i viaggiatori’ (gli individui alla ricerca di un lavoro, oppure quelli che affrontano un qualche tipo di cambiamento nel proprio percorso professionale, di propria iniziativa o costretti a farlo), ma anche, allo stesso tempo, gli abitanti dei diversi territori nei quali i viaggiatori si sposteranno e dei porti ai quali approderanno, più o meno temporaneamente (fuor di metafora, le imprese e più in generale le organizzazioni alle quali di volta in volta accedono: il precedente richiamo ai dispositivi di modulazione ‘tra interno ed esterno’ voleva proprio richiamare tale condizione di efficacia, e conseguentemente l’esigenza che le politiche di intervento, se intendono essere ‘ecologiche’, riguardino insieme le persone ed il contesto, e la loro relazione). Diversamente da quanto in genere avviene, le politiche di intervento che vogliano davvero incidere sulla qualità dei processi di transizione (e quindi sui percorsi finalizzati alla occupabilità) devono riguardare anche le organizzazioni che ‘accolgono’ gli individui in transizione, e le persone che in esse operano. A questo riguardo, credo che occorrerebbe lavorare sulla consapevolezza, che non appare ancora adeguata al problema, che il buon esito della transizione dipende anche dai contesti (che sono insieme organizzativi, tecnologici, relazionali, etc.) ai quali l’individuo accede, e dal modo in cui questi contesti concretamente lo accolgono (anche in questo caso, ‘a parti rovesciate’, contano ‘cultura, competenze e risorse’ per affrontare la transizione): mentre le politiche di intervento degli ultimi anni si sono indirizzate in modo prioritario (anche per contrasto con un indirizzo precedente di segno diverso) verso l’empowerment individuale, e il supporto al soggetto inteso come interlocutore privilegiato, quando non esclusivo, delle politiche di sostegno. Ma come noto, non basta sapere (conoscenza), perché occorre anche saper fare (competenza); e poi occorre anche voler fare (motivazione, intenzione, interesse, desiderio) e poter fare (condizioni di contesto, infrastrutture)[8]: come ho altrove argomentato[9], se questo è vero l’enfatica attenzione al knowledge management, di cui ridonda da qualche tempo la pubblicistica manageriale, andrebbe quantomeno integrata da quella sul knowing management, e cioè sui processi mediante i quali gli individui giungono ad attivarsi a fronte delle risorse informative presenti nelle organizzazioni, ‘decidendo di farsene qualcosa, e cosa farsene’, di quella che sempre più spesso appare come una vera e propria overdose informativa. Questa considerazione ci ricorda che il knowing (l’attivazione di quel processo di apprendimento, che viene sempre più riconosciuto in modo condiviso come letteralmente ‘vitale’ per le persone e per le organizzazioni nello scenario emergente) è il risultato possibile (mai scontato) certo di una ‘disposizione’ individuale, ma anche, e soprattutto, di quel setting organizzativo e contestuale che costituisce una delle principali responsabilità degli stakeholder economici e socio-istituzionali. L'occupabilità è certo un problema dell'individuo, ed è certo un problema delle imprese: ma, oltre che loro, è anche un problema di tutti i soggetti che popolano quella straordinaria ‘terra di mezzo’ che sono le politiche del lavoro, i servizi per l'impiego, l'orientamento, i sistemi di istruzione e formazione. Credo non sia mai stato così vero che ‘nessuno si salva da solo’: per ‘costruire occupabilità’ (che, lo ricordo ancora, significa contribuire a realizzare occupazione, nella accezione ‘moderna’ cui mi sono riferito) c'è lavoro per tutti; e la mia esperienza mi dice che è un lavoro che in questo Paese siamo in grado di fare, di insegnare, e quando serve anche di imparare. Dovremmo conoscerci meglio, e riconoscerci di più; e imparare a fidarci di più (di noi stessi, e reciprocamente): come persone, come comunità professionali, come attori economico-sociali, come soggetti politico-istituzionali. [1] Per una analisi comparata delle migliori esperienze in tema di politiche per il lavoro e servizi per l’impiego a livello internazionale, cfr. P.G. Bresciani; A. Sartori. Innovare i servizi per il lavoro. Tra il dire e il mare… Apprendere dalle migliori pratiche internazionali. Franco Angeli, 2016. [2] Cfr. T. Treu. Tra riforme legislative e pratiche locali. Riflessioni sul percorso di sviluppo dei Servizi per il Lavoro in Italia, in P.G. Bresciani; P.A. Varesi, Servizi per l’impiego e Politiche Attive del Lavoro. Le buone pratiche locali, risorse per il nuovo sistema nazionale. Franco Angeli, 2017 [3] Sul tema delle transizioni nelle strategie di vita e di lavoro, cfr. P.G. Bresciani; M. Franchi. Biografie in transizione. I percorsi lavorativi all’epoca della flessibilità. Franco Angeli, 2007. [4] Per un approfondimento al riguardo, cfr. P.G. Bresciani. Ri-progettarsi per la transizione in Rivista dell’istruzione, n. 3, 2012 [5] Per una trattazione estesa del tema, cfr. P.G. Bresciani. Capire la competenza. Teorie, metodi, esperienze dall’analisi alla certificazione. Franco Angeli, 2016. Per una sintesi, cfr. invece, P.G. Bresciani. Competenza in D. Lipari; S. Pastore. Nuove parole della formazione. Palinsesto, 2014. [6] Sul tema dell’integrazione, cfr. P.G. Bresciani. Integrazione in Professionalità, n. 91, 2006. e, più in particolare, cfr. P.G. Bresciani. L’integrazione nei servizi di orientamento. 5 lezioni dalle buone pratiche in Professionalità, n. 104, 2009. [7] Le considerazioni che seguono sono riprese, con alcune modifiche e integrazioni, da P.G. Bresciani. E allora? Per una ecologia della transizione in P.G. Bresciani; M. Franchi. Op. cit. [8] La distinzione, particolarmente intuitiva e ricca di implicazioni operative, è ben tematizzata, tra gli altri, da G. Le Boterf. Cfr. al riguardo, per una sintesi del suo pensiero il suo Repenser la compétence. Les Editions d'Organisation, 2008. [9] Cfr. P.G. Bresciani. Oltre la crisi. Ripensare management, sviluppo delle persone e formazione nelle organizzazioni in ‘Risorse umane’ nell’organizzazione. Giovani e donne nelle banche di credito cooperativo. Franco Angeli, 2014. Foto di Muhammad Amdad Hossain da Pexels
0 Comments
Your comment will be posted after it is approved.
Leave a Reply. |
x
|