Continuando nella elaborazione dei ‘cinque pezzi (non) facili’ oggetto di questa serie di interventi, siamo arrivati al passaggio che riguarda le persone. Sullo slogan People first, sulla locuzione risorse umane e sulla loro rischiosa ambivalenza (ma anche ambiguità) ho già svolto alcune considerazioni in uno degli interventi precedenti. Sono numerosi e di tipo diverso i contributi che trattano questo slogan con molta ironia: nella sezione suggestioni di questo blog propongo il video estratto da un film a mio avviso particolarmente godibile e caustico al riguardo, video di cui mi piacerebbe prendeste visione prima di continuare la lettura. Qui vorrei invece limitarmi a richiamare un punto particolare, quello dell’intreccio necessario tra funzionamento in rete (dentro e fuori delle organizzazioni) e centralità delle persone. Che cosa implica il lavoro in rete? Come ho argomentato nel mio precedente contributo sull’integrazione pubblicato su questo blog, per le persone lavorare in rete implica conoscere delle cose e saperle fare, ma implica anche volerle fare (c’è quindi un problema di motivazione, di interessi, di aspettative, di scopi) e infine implica poterle fare (c’è quindi un problema di risorse disponibili/mobilitabili, e di condizioni organizzative). Perché è importante occuparsi di tutto questo? Perché alla fine di qualsiasi filiera, che sia tratti di prodotti o di servizi, ci sono sempre persone che ‘fanno le cose’ necessarie: l’innovazione, la progettazione, la programmazione, l’erogazione di servizi, la gestione dei processi e delle attività, la promozione e la vendita, il coordinamento di altre persone, la comunicazione, la contrattazione… E’ questo il motivo per cui, parafrasando un noto proverbio, potremmo affermare che tra il dire e il mare c’è di mezzo il… fare: e le persone sono il soggetto di questo ‘fare’. Ciò significa che occorrono persone che intraprendano, che si attivino, che ‘si diano da fare’: ma per intraprendere, le persone devono avere le propria ragioni, essere motivate, trovare un senso per sé, crederci, avere fiducia, disporre di risorse o comunque mobilitarsi per procurarsele. Ecco perché occorre occuparsi delle persone: non tanto dal punto di vista normativo (che cosa occorre imporre loro di fare con gli strumenti della regolazione), o pedagogico (che cosa occorre insegnare loro perché siano in grado di fare); ma piuttosto, cosa è necessario fare perché le persone trovino il proprio senso, costruiscano il proprio progetto, diano corpo alla propria intenzione, decidano di stare con me (con me management; con me organizzazione) in questa ‘impresa’: e quindi in qualche modo decidano di accettare ed ‘abitare’ questo patto psicologico, e di condividere il percorso in questa direzione, e dunque ‘intraprendano’ (perché è sempre più questo che occorre: comportamenti imprenditivi, e cooperativi). Questa attenzione alle persone è cruciale, perché siamo già ormai da decenni nell’era del terziario, dove come affermava in modo lungimirante J. Naisbitt l’alta tecnologia si deve coniugare con l’alta relazione, cioè con l’alto ‘contatto’ (high-tech, high-touch); dove c’è grande personality intensity, secondo la felice formulazione di R. Normann. A parità di architetture, strategie, modelli, sistema di gestione e tecnologie, le persone fanno la differenza: e non bastano più le loro braccia, occorre anche la loro intelligenza, la loro la mente. Addirittura, sempre più spesso le aziende vorrebbero anche ‘il cuore’ delle persone: si parla di adesione, coinvolgimento, committment, condivisione dei valori, senso di appartenenza e identificazione, entusiasmo… Braccia, mente e cuore, dunque: ma allora si tratta di capire se tutto ciò, oltre che etico, sia realistico: quale sia il confine, e che cosa faccia il management per potersi ‘meritare’ tutto questo. A questo proposito, ritengo che oggi il rischio vero sia che, complice la crisi, il manager sia tentato di pensare di non avere bisogno di prendersi cura delle persone, cedendo alla tentazione di ritenere di averle già ‘in pugno’ a causa della situazione di incertezza generale, e di bisogno. Ma se davvero si vuole che le persone ‘abitino’ attivamente l’organizzazione, occorre che acquisiscano nuove conoscenze e competenze, e che le condividano, che siano motivate, intraprendano, abbiano fiducia in sé e negli altri: occorre tutto questo, altrimenti l’organizzazione (e tantomeno la rete) semplicemente ‘non si fa’. Se diffido, allora non mi metto in rete e sono restìo a cooperare con altri, e se anche mi ci metto ma lo faccio ‘per convenienza’, il mio comportamento troppo tattico ‘avvelenerà’ le relazioni, e influirà negativamente sulla esperienza e sui suoi risultati. Lavorare in rete è in effetti, da un certo punto di vista, una gran complicazione, perché implica gestire più relazioni e più interazioni, negoziare di più, gestire più conflitti; e poi richiede di sopportare stress e frustrazioni, implica contenere l’ansia dovuta al fatto che si ridefiniscono i propri e altrui confini; e implica ridefinire la propria identità, cedere qualcosa, sopportare la confusione e l’incertezza, gestire insieme cooperazione e competizione, dedicare molto più tempo alle interazioni (è il tema dei c.d. ‘costi di transazione’). Allora che cosa può fare un manager per favorire comportamenti organizzativi che abbiano le caratteristiche che abbiamo indicato come desiderabili e necessarie: e che quindi siano ‘competenti, motivati, flessibili’? Non può certo pensare di attribuire agli individui la intera responsabilità di tutto questo, ‘esonerando’ l’azienda da qualsiasi responsabilità al riguardo. Il ‘ricatto economico ed occupazionale’ (che ha un suo alleato oggettivo nello scenario di crisi attuale) può anche darsi che in determinati casi e in certe fasi ‘funzioni’: ma a che prezzo? E un modello relazionale improntato a tale ricatto che cosa riteniamo possa produrre nelle persone, dal punto di vista del loro atteggiamento e della loro adesione all’azienda? Non è solo o tanto questione di teorizzare una organizzazione dal volto umano (a volte gli psicologi vengono tacciati di buonismo organizzativo, magari con qualche motivo): è, piuttosto, questione di essere funzionali ai propri obiettivi. Se i problemi che abbiamo di fronte sono quelli richiamati finora, dovrebbe essere quantomeno la logica ‘riduttivamente’ strumentale e funzionale (anche qualora non fossimo sensibili alla dimensione etica) ad orientare comunque verso scelte di attenzione alle persone. Perché senza le persone, o peggio ancora contro di esse, tutto ciò che abbiamo definito finora come desiderabile non si riuscirà ad ottenere, e il tipo di comportamenti auspicato non si riscontrerà. Perché se è vero che qualche volta le persone sono il problema, è altrettanto vero che le persone sono sempre la soluzione. Immagine di fauxels da Pexels
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