IL RAPPORTO CON L'AMBIENTE IN UNA PROSPETTIVA PSICOLOGICA. APPUNTI AUTOBIOGRAFICI [movimento 2 di 3]22/8/2023 Alcuni anni fa, sollecitato dall’Arch. Flore a contribuire ‘con uno sguardo da psicologo’ al volume ‘Il tempo della pietra’ (Adda editore; volume centrato sulla descrizione di un intervento particolarmente significativo di riprogettazione dell’ambiente realizzato in Valle d’Itria, per incarico dell’oncologo ed ex ministro prof. Veronesi) sollecitato e attratto da questa prospettiva ho alla fine deciso di accettare la sua proposta, reinterpretandola però (come sempre più spesso mi capita di fare) in chiave meta-cognitiva. L’impegno ha quindi costituito per me l’occasione per svolgere una riflessione sul mio rapporto con l’ambiente, e in particolare con quello specifico tipo di ambiente costituito da quel ‘perimetro di bellezza’ di cui in quegli anni mi era capitato di fare personalmente esperienza vivendo tra Ostuni, Valle d’Itria e Salento. Questa riflessione, come si potrà verificare proseguendo nella lettura, è pubblicata nel blog in tre passaggi, che ho chiamato ‘movimenti’, per indicare il rapporto dinamico tra di essi:
Secondo Movimento Il nostro rapporto con i luoghi e gli ambienti. Alcune suggestioni dalla psicologia ambientale Vorrei quindi ora tentare di rileggere la mia esperienza personale di sviluppo di una relazione così intensa e così ‘appagante’ con questa parte della Puglia per verificare se e in che misura, in quella parte delle discipline psicologiche che si definisce ‘psicologia ambientale’[1], sia possibile rinvenire concetti, approcci e modelli interpretativi da un lato consonanti con quanto ho sperimentato (ed ho richiamato nel primo movimento) e dall’altro lato in grado di argomentare in modo magari meno ‘emotivamente coinvolgente’ di quanto non consenta il linguaggio della poesia e della letteratura, e con il supporto di dati di ricerca, le affermazioni che ho proposto fino ad ora in particolare in relazione agli aspetti affettivi della mia relazione con Ostuni e il Salento. Secondo tale prospettiva scientifica, ‘l’attaccamento’ che le persone possono sviluppare verso i luoghi (e le cui dimensioni principali sono l’intensità, la continuità, la durata, la qualità emozionale e la consapevolezza; e che varia in funzione dell’età e della dipendenza dell’individuo dall’ambiente) ha profonde analogie con l’attaccamento affettivo di un bambino alla persona di riferimento. La teoria dell’attaccamento è stata elaborata dallo psicoanalista inglese J. Bowlby e riguarda il particolare tipo di legame che si crea tra il bambino e la persona che si prende cura di lui (generalmente, ma non necessariamente, la madre). Sulla base di tale teoria, sono stati studiati diversi ‘stili’ che riflettono altrettante modalità specifiche di esplorazione dell’ambiente da parte dell’individuo (definiti come ‘stile sicuro’; ‘stile insicuro ansioso-ambivalente’; e ‘stile insicuro ansioso-evitante’): tale riferimento all’infanzia è considerato rilevante, poiché in età adulta l’individuo tenderebbe a riprodurre nelle sue relazioni affettive il modello di attaccamento sperimentato in quella fase della propria esistenza. Un aspetto particolarmente rilevante della teoria di Bowlby è quello che riguarda quello che viene definito ‘attaccamento sicuro’[2]: una forma di relazione la cui concreta sperimentazione costituisce, secondo questo autore, la condizione primaria affinchè le persone possano poi costruire ulteriori forme di attaccamento. Diversi autori hanno sottolineato le analogie tra l’attaccamento affettivo alle persone e l’attaccamento ai luoghi: A.M. Baroni[3], ad esempio, richiamando il contributo del celebre psicoanalista D.W. Winnicott sulla relazione madre-bambino[4] nello sviluppo affettivo, rileva come il concetto di ‘ambiente’ debba essere considerato in senso ampio; per ciò che riguarda il contenuto di queste mie considerazioni, ciò significa che un conto è parlare di ‘luoghi’ (limitandosi ai tipi di ‘oggetti’ in essi contenuti, agli spazi, alla disposizione degli stessi), e altro conto invece è parlare di ‘ambiente’ (includendo in tale accezione, oltre ai luoghi, anche le persone, le comunità locali e le loro culture, etc.): perché la nostra relazione con i luoghi è sempre mediata dalle relazioni sociali[5] (sia quelle reali; sia quelle che nel nostro immaginario hanno luogo sulla base delle nostre esperienze e rappresentazioni antecedenti, e delle aspettative, dei timori, delle ansie, degli stereotipi ed a volte dei veri e propri pregiudizi che tali esperienze e rappresentazioni hanno contribuito a sedimentare in noi). Come è facilmente intuibile, c’è uno stretto legame tra attaccamento e dipendenza, e anche all’origine dell’attaccamento ai luoghi c’è sempre una forma di dipendenza: naturalmente, nell’arco dello sviluppo di un normale lifecycle[6], la dipendenza è massima nella prima infanzia, decresce progressivamente con l’età, man mano che l’individuo sviluppa la propria ‘competenza ambientale’ (che alcuni autori definiscono come ‘capacità di affrontare con successo i problemi spaziali, sociali e lavorativi propri dell’età adulta’), per aumentare di nuovo in misura diversa nell’età anziana: ed è interessante osservare che in quest’ultima fase dell’esistenza aumenta non solo la dipendenza ‘oggettiva’ dai luoghi (da cui l’importanza della assenza di barriere architettoniche; della presenza di vicinato; della prossimità di servizi sociali e sanitari), ma anche quella ‘affettiva’, confermando che le circostanze della vita in cui siamo più deboli (e nella quale massima è la vulnerabilità che percepiamo) sono quelle che contribuiscono in modo decisivo a consolidare il nostro ‘attaccamento’ ai luoghi che abitiamo. Nei testi di psicologia ambientale si sostiene che in ogni caso, una parte più o meno grande della nostra identità personale è costituita dai sentimenti di attaccamento ai luoghi, attaccamento che si manifesta con una intensità molto variabile, che va da una generica preferenza per certi tipi di ambienti ad un legame particolarmente forte con un territorio o un luogo specifico, che può sfociare nella topofilìa[7]. Ora, certamente quando consideriamo l’attaccamento descritto dalla letteratura psicologica, possiamo riferirci ad una situazione ‘oggettiva’, che ha a che fare con la ‘struttura’ della relazione dell’individuo con esso, e che riguarda il suo più o meno temporaneo stato di inadeguatezza a provvedere a sè stesso e la sua contingente vulnerabilità; e che specularmente ha a che fare con la presenza di un soggetto (la madre) e di un contesto (un luogo; o meglio ancora un ‘ambiente’, nella accezione che ho proposto in precedenza citando il richiamo di D.Winnicott alla coessenzialità della dimensione sociale quale componente altrettanto cruciale per la qualità complessiva del nostro vissuto, di ciò di cui facciamo esperienza) in grado di fornire sia un concreto supporto e sia, per questa via, un ancoraggio (fungendo da ‘porto sicuro’ al quale approdare ed ancorarsi). Ma al di là di tutto questo, che ha a che fare direi con la ‘materialità’ della relazione, quali sono gli altri fattori, di natura diversa, che entrano in gioco nel determinare le diverse forme di ‘attaccamento’ che è dato riscontrare? Come dirò meglio in seguito, quando ci spostiamo sul piano del rapporto delle persone con i luoghi/ambienti, i contributi della psicologia ambientale richiamano almeno altri due tipi di fattori che influenzano in modo decisivo, stanti gli studi e le ricerche effettuati in questo ambito, la forma e l’intensità dell’attaccamento: da un lato le caratteristiche delle persone (preferenze, interessi, scopi, tratti di personalità, auto-rappresentazioni, etc.); dall’altro le risorse che quel luogo/ambiente è in grado di costruire e di mettere a loro disposizione come opportunità e addirittura come ‘sollecitazione all’uso’ (affordance). Secondo un approccio teorico che si definisce non a caso ‘interazionista’, è nella concreta interazione tra questi diversi tipi di fattori che va ricercata la chiave interpretativa del maggiore o minore sviluppo di ciò che abbiamo definito ‘attaccamento’ tra persone e luoghi: e quindi (cosa particolarmente rilevante per i professionisti, gli operatori economici, e le stesse istituzioni pubbliche) è nella analisi di come avviene tale concreta interazione e di quali elementi sono in grado di influenzarla (in positivo e in negativo), e successivamente nella progettazione di strategie di intervento finalizzate a migliorare la qualità di tale interazione e i suoi concreti effetti, che si possono trovare soluzioni di massimizzazione dei risultati desiderabili, che a seconda delle finalità e degli interessi potranno consistere ad esempio nel miglioramento benessere individuale, della qualità urbana, della convivenza civile, o della attrattività territoriale. La psicologia ambientale ha cercato di studiare le ‘condizioni’ in base alle quali un individuo (con tutte le sue caratteristiche personali, le sue esperienze passate, le sue intenzioni ed i suoi scopi attuali) è portato a provare emozioni positive[8] nei confronti di un ambiente: in particolare, alcuni autori hanno sviluppato interessanti schemi e modelli di interpretazione di ciò che viene definito ‘affective appraisal’ (la valutazione affettiva che di un ambiente effettuano le persone). L’approccio ‘classico’ poi oggetto di numerose rivisitazioni è quello di S. Kaplan, che distingue quattro tipi di condizioni che dovrebbero essere soddisfatte per dare luogo alla valutazione affettiva positiva: coerenza, comprensibilità, leggibilità, mistero. La coerenza richiama l’esigenza che un ambiente non sfidi oltre una certa soglia la capacità delle persone che lo vivono di categorizzarlo, ‘mapparlo’ e riconoscerlo in modo non troppo impegnativo, e difforme dai propri schemi cognitivi, dalle proprie rappresentazioni e aspettative. La leggibilità, che risulta correlata alla coerenza, presuppone la disponibilità di un sistema di informazioni (ma potremmo dire meglio di ‘segni’, in una prospettiva semiotica) che facilitano la comprensione e quindi la fruizione dell’ambiente (si pensi ad un locale pubblico, ad una casa privata, ad un quartiere, ad una città, o come nel caso del Salento ad un territorio ampio; ed alle implicazioni che ne derivano se si intende migliorare la ‘valutazione affettiva positiva’ di coloro che stabilmente o temporaneamente vi vivono[9]). La complessità richiama l’esigenza che un ambiente costituisca (anche in questo caso non oltre una certa soglia, proprio per non ostacolare la necessaria leggibilità) un contesto sufficientemente complesso ed articolato (e cioè ricco di stimoli percettivi) da sollecitare la ‘attivazione’ delle facoltà individuali, con effetti di piacevolezza e benessere. Infine, il mistero ha a che fare con uno dei bisogni individuali più antichi (sia nella storia dell’uomo che nella storia di ciascuno) e profondi, che è quello della esplorazione e della scoperta: e riguarda quella particolare caratteristica per cui un ambiente riesce a trasmetterci la sensazione di contenere informazioni ulteriori per noi interessanti ed accessibili (di qui l’attrattività, e l’interesse a procedere ulteriormente nella esplorazione e nella fruizione). Naturalmente (e questo è un aspetto che da psicologo trovo particolarmente interessante) il fatto che le quattro caratteristiche indicate (coerenza, comprensibilità, leggibilità, mistero) costituiscano i criteri in base ai quali le persone giungono a formulare la propria valutazione affettiva su un ambiente, non significa che i giudizi risultino omogenei: perché, come abbiamo sottolineato, lo stesso tipo di ‘condizione ambientale’ viene percepita e ‘filtrata’ da un lato in base alle caratteristiche specifiche delle singole persone[10], e dall’altro lato in base al tipo di relazione che concretamente si instaura tra l’ambiente e le persone durante tale processo. Un modello che tiene conto di quanto ho appena affermato è il ‘modello della discrepanza’ di A.T. Purcell, che attribuisce importanza alle esperienze precedenti dei soggetti, e che richiama il concetto di ‘schema ambientale’ (l’esemplare prototipico che abbiamo in mente quando percepiamo un ambiente, e cioè lo schema che attiviamo nel leggerlo, ed a cui siamo portati a compararlo). Secondo questa teoria, il meta-criterio in base al quale le persone valutano ‘emotivamente’ i luoghi è costituito dal ‘grado di discrepanza’ tra il proprio schema ambientale preesistente e le caratteristiche del luogo che si sta valutando: tale luogo sarà valutato tanto più positivamente quanto più esso verrà vissuto come abbastanza nuovo e accattivante (ma non così distante dalle aspettative preesistenti da creare ostacoli ai processi cognitivi) così da indurre uno stato di ‘attivazione’ del soggetto[11]. Modelli come questo hanno naturalmente sollecitato molte riflessioni e lavori di ricerca sul ruolo ‘decisivo’ delle variabili individuali nella determinazione della valutazione affettiva sui luoghi e gli ambienti: sia nel senso della variabilità tra persone diverse, sia nel senso della variabilità tra fasi diverse della vita delle stesse persone (lifecycle). Se tutto dipende dalla coerenza con il prototipo che abbiamo in mente, infatti, e dal livello di coerenza o somiglianza tra tale prototipo e l’ambiente al quale stiamo pensando o che stiamo abitando, allora è evidente che il ‘metro di misura’ di tale giudizio valutativo sarà differente da persona a persona, sulla base delle specifiche soggettività (tratti di personalità, atteggiamenti, motivazioni, etc.). Ma se ‘ciascuno è diverso’, come orientare i propri comportamenti quando si tratta di fare scelte che hanno un impatto collettivo, come quelle architettoniche, urbanistiche, turistiche, o di sviluppo territoriale? A quali principi ispirarsi, per identificare soluzioni che possano massimizzare l’impatto, l’utilità, o anche la desiderabilità delle soluzioni proposte? Un esempio del modo in cui il pensiero scientifico cerca di uscire dalla impasse che si crea con approcci ‘individualisti’ è quello di verificare la possibilità di ricondurre i comportamenti individuali a ‘tipi’ in qualche modo omogenei ai quali questi possano essere ricondotti. Ad esempio, per ciò che riguarda il rapporto con l’ambiente, M. Zuckermann propone di distinguere tra ‘sensation seekers’ (soggetti alla ricerca di sensazioni, che amano un elevato grado di sollecitazione e di attivazione cognitiva ed emotiva) e ‘sensation avoiders’ (soggetti che invece cercano di evitare le sensazioni, preferiscono decisamente le situazioni tranquille, note, in cui non ci sia troppo da scoprire o da cui non ci sia da attendersi troppa ‘novità’). Con riferimento specifico agli ambienti naturali, inoltre, è stata analizzata la funzione di ‘restorativeness’ del paesaggio naturale (il verde, le piante, l’acqua, la pietra, la terra, lo stesso paesaggio nel suo insieme…), e cioè la sua capacità di aiutare le persone a recuperare il proprio benessere psicologico, che risulta messo a dura prova da diversi tipi di stress (tra i quali quello urbano). Anche R.S. Ulrich e colleghi hanno studiato l’effetto ‘rigenerante’ degli ambienti naturali con determinate caratteristiche per i processi cognitivi ed affettivi compromessi dallo stress (ed indirettamente quindi anche per gli stessi processi fisici di guarigione); così come a loro volta S. Kaplan e R. Kaplan hanno osservato la differenza in termini di ‘attenzione’ tra situazione patologica e situazione positiva, laddove la differenza è data dal carattere del tutto particolare del tipo di attenzione che viene sollecitata dall’ambiente naturale positivo: non l’attenzione volontaria, continua, faticosa che è richiesta dagli ambienti di lavoro e dagli ambienti urbani, ma quel tipo di attenzione involontaria, sostanzialmente automatica, alla quale hanno dato il nome di ‘fascination’, che esprime efficacemente il tipo di ‘attrazione’ che l’ambiente naturale (quando è ‘un bell’ambiente’ per un individuo) è in grado di suscitare[12]. [1] I richiami che farò sono ispirati in particolare alle considerazioni svolte da A.M.Baroni in ‘Psicologia ambientale’ Il Mulino 2008. [2] Si definisce ‘sicuro’ l’attaccamento nel quale il bambino sente di avere dalla figura di riferimento in misura adeguata protezione, senso di sicurezza, affetto. [3] Cfr. la precedente nota 16. [4] Particolarmente nota, ed importante, la sua puntualizzazione sulla necessità per la madre di proporsi di essere soltanto ‘abbastanza buona’, tenendosi in questo modo lontana dalle idealizzazioni irraggiungibili, frustranti e alla fine colpevolizzanti sia di parte del ‘senso comune’, sia di parte della pubblicistica corrente. [5] Ciò è confermato dal fatto che a volte a luoghi magari degradati sotto il profilo della ‘fisicità’ dell’ambiente risultano, nonostante questo, fonte di inaspettato benessere per le persone che li abitano, proprio in forza del ‘ritorno di socialità’ che essi vi possono sperimentare, e che fa di quei contesti non soli dei ‘luoghi’ ma degli ‘ambienti’. [6] L’espressione si riferisce al ‘ciclo di vita’ degli individui, e la sua adozione implica l’assunzione di una prospettiva ‘differenziale’ nella analisi dei problemi e nella progettazione delle strategie per affrontarli, in relazione alla diversità delle fasi della esistenza delle persone (secondo quello che si definisce anche approccio ‘life span’). [7] In modo suggestivo, G. Bachelard definisce la topofilìa come identificazione ‘del valore umano degli spazi di possesso, degli spazi difesi contro forze avverse, degli spazi amati’. Un concetto diverso ma in qualche modo affine è quello di ‘existential insideness’ di E.C. Relph: lo stato d’animo di colui che si sente perfettamente integrato in un luogo e rappresentato da esso, così che il luogo viene percepito come attraente, amabile, desiderabile, rassicurante. [8] Naturalmente, non è nell’economia né nella natura di questo mio breve contributo entrare nel dettaglio della tematica delle emozioni, per riferirsi alla quale occorrerebbe richiamare una bibliografia di particolare ampiezza: nondimeno, ritengo questa parte del contributo della psicologia ambientale particolarmente ‘comprensibile’ anche ai non specialisti, ed anche particolarmente interessante ai fini di una possibile chiave di lettura della riflessione ‘autobiografica’ che ho proposto nella prima parte del testo, e che riprenderò alla fine. [9] Una delle implicazioni rilevanti riguarda l’importanza della chiarezza della ‘identità’ di un ambiente ai fini della sua attrattività. Naturalmente l’identità ha un aspetto per così dire oggettivo (è nella mia storia), uno soggettivo (è nel mio progetto, è quella che voglio per me), e allo stesso tempo uno relazionale (è quella che gli altri mi riconoscono). [10] Ed anche quando si tratti delle stesse persone, le valutazioni potranno risultare anche sensibilmente diverse in fasi diverse del loro lifecycle. [11] L’assunto di base di tale teoria è che una moderata discrepanza solleciti il sistema nervoso autonomo ed agisca come dispositivo di mobilitazione e di attivazione, mentre una eccessiva somiglianza o all’opposto una totale discrepanza producano entrambe, se pure per motivi opposti, una reazione negativa e di rifiuto. Un modello analogo è quello di T.W.A. Whitfield, secondo cui più un ambiente è ‘tipico’ (nel senso di simile al prototipo che le persone hanno interiorizzato a seguito della loro esperienza), e più è probabile che susciti un’alta valutazione di preferenza. [12] Quando l’ho incontrata nei testi di psicologia ambientale, questo secondo tipo di attenzione mi ha fatto tornare alla mente ‘l’attenzione fluttuante’ che dovrebbe caratterizzare l’atteggiamento dello psicoanalista nelle teorizzazioni di quella specifica pratica professionale.
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