IL RAPPORTO CON L'AMBIENTE IN UNA PROSPETTIVA PSICOLOGICA. APPUNTI AUTOBIOGRAFICI [movimento 1 di 3]8/8/2023 Tratto da A. e R. Flore (a cura) 'Il tempo della pietra', Adda editore, 2012. Alcuni anni fa, sollecitato dall’Arch. Flore a contribuire ‘con uno sguardo da psicologo’ al volume ‘Il tempo della pietra’ (Adda editore; volume centrato sulla descrizione di un intervento particolarmente significativo di riprogettazione dell’ambiente realizzato in Valle d’Itria, per incarico dell’oncologo ed ex ministro prof. Veronesi) sollecitato e attratto da questa prospettiva ho alla fine deciso di accettare la sua proposta, reinterpretandola però (come sempre più spesso mi capita di fare) in chiave meta-cognitiva. L’impegno ha quindi costituito per me l’occasione per svolgere una riflessione sul mio rapporto con l’ambiente, e in particolare con quello specifico tipo di ambiente costituito da quel ‘perimetro di bellezza’ di cui in quegli anni mi era capitato di fare personalmente esperienza vivendo tra Ostuni, Valle d’Itria e Salento. Questa riflessione, come si potrà verificare proseguendo nella lettura, è pubblicata nel blog in tre passaggi, che ho chiamato ‘movimenti’, per indicare il rapporto dinamico tra di essi:
Primo Movimento Dalla Grecia a Ostuni, la Valle d'Itria, il Salento. Riflessioni autobiografiche su un cambiamento di prospettiva Fino a pochi anni fa, quando pensavo all’ambiente ideale, per me ‘esisteva solo la Grecia’; anzi, più precisamente, esistevano solo le isole Cicladi: che avevo cominciato a conoscere ormai trentenne, nei primi indimenticabili viaggi in moto con mia moglie, durante i quali progressivamente si era ‘fissato’ in modo indelebile nei nostri occhi, nei nostri sensi e nella nostra memoria (non a caso si parla oggi di mindscape, di ‘paesaggio mentale’) quel repertorio straordinario di immagini bellissime, che si è venuto componendo ed arricchendo di anno in anno (e che ancora permane in noi, come un prezioso scrigno di gioie[1]) durante quello che è diventato nel tempo un itinerario di progressiva scoperta, di appropriazione e di vera e propria identificazione con quel paesaggio, quella luce e quei colori, quei suoni e quei silenzi, quel linguaggio, quel cibo e quel vino (sì, amavo anche il retsìna, il vino resinato e di botte così lontano dalla ‘perfezione’ dei tanti vini che pure ho poi imparato ad apprezzare…). Le Cicladi, tutte le Cicladi, ciascuna a suo modo e ciascuna rappresentando un mondo specifico ed unico[2], con la sua peculiare identità, erano in grado di trasmettermi allo stesso tempo un senso di pienezza estetica e di benessere esistenziale; nelle Cicladi mi sentivo ‘a casa’, le vivevo come un ambiente amichevole e addirittura familiare, in totale corrispondenza con le mie esigenze più profonde[3]. A chi mi avesse chiesto, anche solo dieci anni fa, da quale ambiente mi sentissi attratto, a quale ambiente mi sentissi legato, in quale ambiente avrei voluto, potendolo, ritirarmi ad un certo punto della mia vita per dedicarmi alle cose che amo e che più mi fanno sentire libero (leggere e studiare, scrivere, passeggiare, contemplare il mare), avrei risposto senza alcuna esitazione che il mio desiderio era quello così ben rappresentato da tanta parte della iconografia cicladica: una piccola casa bianca, con il tetto piatto, con una bella veranda ed un grande terrazzo dai quali si potesse vedere il mare, con intorno il verde argentato degli ulivi[4], immersa nel silenzio. E ciò non perché fossi stato ammaliato da qualche bella immagine occhieggiata fugacemente su un settimanale o in una delle tante trasmissioni televisive che oggi ‘promuovono’ i tanti luoghi dell’Italia e del mondo, ma perché ero stato testimone ‘mille volte’ di quel tipo di immagine, ed avevo vissuto personalmente, immerso in situazioni reali nelle quali anche io avevo fatto parte di quel paesaggio, uno stato mentale (cognitivo, emotivo) che aveva contribuito a creare in me un vero e proprio ‘attaccamento’[5]. In questi dieci anni, le cose per me sono rimaste quelle, ma allo stesso tempo sono profondamente cambiate; per questo ne scrivo in questo volume: perché la Puglia e in particolare ai miei occhi il Salento e la Valle d’Itria (con il loro paesaggio, con la loro luce e i loro colori, con il loro suoni e i loro silenzi, con il loro linguaggio, con il loro cibi e i loro vini) hanno progressivamente, dolcemente ma altrettanto solidamente ‘sovrascritto’ nella mia mente (e nel mio cuore, dovrei più propriamente dire) l’immagine delle isole Cicladi che così a lungo e con tanto coinvolgimento emotivo ho elaborato, e che fa ormai parte di me, inscritta come è nell’hardware dei miei circuiti cerebrali. E’ accaduto infatti che per un insieme di motivi diversi[6] la prospettiva, che avevo per qualche tempo accarezzato, di potere acquistare un terreno ed una piccola casa in un’isola dell’Egeo si è rivelata impraticabile, ed allora ho accettato (inizialmente, è giusto riconoscerlo, come se si trattasse in qualche modo di una mediazione necessaria, rispetto al mio ‘vero’ obiettivo: come in quei processi di realistica negoziazione con sé stessi che caratterizzano la fase di maturità della nostra esistenza) la sollecitazione, da parte di alcuni amici che avevano già fatto questo tipo di scelta, a prendere in considerazione la possibilità di riorientare verso il territorio della città di Ostuni i miei progetti di ‘buen retiro’ per il futuro. Ho cominciato quindi circa otto anni fa a frequentare con una certa assiduità il Salento e la Valle d’Itria, che erano stati per me in passato soltanto meta occasionale di viaggi brevi, che non avevano sedimentato in me una particolare ‘consistenza’ (di immagini, di sensazioni, di esperienze, di emozioni), nè avevano contribuito al loro radicamento, o allo sviluppo in me di un sentimento di inclusione e di appartenenza a questi luoghi, e di prossimità e di familiarità rispetto alle persone che li abitano; né un particolare desiderio di farvi ritorno, e tantomeno di pensare ad un futuro di mia maggiore e più stabile presenza in questo territorio. All’inizio di quello che si sarebbe rivelato un progressivo percorso di ‘addomesticamento’[7], Ostuni (‘la città bianca’) con la sua iconografia, costituiva per me essenzialmente ‘la cosa più simile ad un chòra greca’ che io potessi immaginare, ed anzi rappresentava in qualche modo ‘la più bella chòra che avessi mai visto[8]’: ed è stata quindi inizialmente in particolare questa ‘somiglianza’ la ragione del mio volgere l’attenzione verso questa nuova destinazione, questo nuovo ‘ambiente’. Il mio interesse e la mia disponibilità (la mia motivazione, potremmo dire) a cercare un ‘insediamento’ nel Salento originavano quindi essenzialmente dall’inconscio e comprensibile desiderio di tentare di ritrovare sensazioni, emozioni, esperienze quanto più simili fosse possibile a quelle che avevo sperimentato nelle Cicladi, e quindi ai contesti (l’ambiente, il paesaggio, la ‘cultura materiale’) nei quali avevo ripetutamente avuto la possibilità di sperimentarle, tanto da creare in me la convinzione che tale sensazione di benessere, di serenità e di pienezza esistenziale fosse da ricondurre unicamente a quelle isole, in un rapporto di causa-effetto. Ebbene, ciò che è avvenuto in me in questi anni costituisce invece un risultato del tutto inatteso, del quale vorrei in queste poche pagine offrire testimonianza; e che vorrei cercare di rileggere, di interpretare e di verificare (oltre la mia ricostruzione autobiografica) alla luce di alcune acquisizioni di quell’ambito delle discipline psicologiche che si definisce ‘psicologia ambientale’: per capire se e in che misura ciò di cui ho avuto personalmente esperienza sia qualcosa di unico ed irripetibile (cedendo in questo modo a quella tentazione un poco narcisistica che tutti abbiamo di sentirci ‘speciali’[9]), oppure se possa essere riletto alla luce di categorie interpretative più generali, che siano in grado di renderne ragione e di ricondurlo non dico a ‘leggi’ di qualche tipo, ma quantomeno a ‘regole’ oppure a ‘dinamiche tipiche’. Credo che valga la pena di tentare questo esercizio non soltanto perché esso è rilevante per la mia riflessione personale, ma anche perché esso sembra potere essere di qualche interesse anche per la riflessione di tutti coloro che a vari livelli e con diversa collocazione professionale o istituzionale si occupano di favorire lo sviluppo di relazioni positive tra le persone (in particolare quelle che attualmente non vi abitano) ed i territori, e in questo caso il territorio della Puglia e del Salento: ad esempio architetti, urbanisti, imprenditori dell’edilizia e del turismo, associazioni professionali e di imprese legate alla valorizzazione del territorio, amministratori pubblici. Come ho anticipato, la natura di ciò che è avvenuto a me sembra sia quella un processo di ‘addomesticamento’, da parte di Ostuni e del Salento, nei mie confronti: un processo lento e progressivo al termine del quale a ben vedere ‘nulla è cambiato’ (le Cicladi sono dove e come sono sempre state, Ostuni e il Salento sono dove e come sono sempre stati; in entrambi i casi, con il processo evolutivo che nel tempo si è realizzato per mano dell’uomo), ma allo stesso tempo ‘tutto è cambiato’ (la mia ‘disposizione’ interiore nei confronti delle prime permane ed è certo ancora positiva, ma risulta come più attenuata e ‘sullo sfondo’; mentre nella mia mente e nel mio cuore progressivamente i secondi hanno preso il sopravvento e sono ora ‘in figura’[10], si sono insediati, mi hanno conquistato, perché in essi sono riuscito ad avere concreta esperienza[11] di ciò che ha particolare valore per me). La grande letteratura esprime con straordinaria capacità di sintesi e di evocazione emotiva ciò che il linguaggio scientifico è inevitabilmente portato invece ad analizzare in modo più tecnico e a volte algido: per questo preferisco utilizzare nella mia ricostruzione soggettiva la letteratura per cercare di comunicare la natura del fenomeno del quale ho potuto avere personalmente esperienza: nel testo di Antoine de Saint-Exupery, ‘se tu mi addomesticherai’, dice la volpe al principe, allora ‘noi avremo bisogno l’uno dell’altro’, ed aggiunge ‘non si conoscono che le cose che si addomesticano’ (per questo, afferma, oggi gli uomini ‘non hanno più il tempo di conoscere nulla’). ‘Occorre essere molto pazienti’, ammonisce la volpe; e parlando delle rose, ricorda al piccolo principe che proprio il fatto di avere dedicato tanto tempo e tanta cura ad una di esse, la rende oggi così unica ai suoi occhi. Gli insegnamenti della volpe esprimono una saggezza straordinaria: quando ricorda la crucialità della creazione di legami (non solo tra persone, va aggiunto, ma anche tra persone e luoghi, ambienti, territori, comunità) per la qualità della nostra esistenza; quando richiama la necessità di essere pazienti, di ‘darsi tempo’[12], perché i legami (attraverso i quali ‘ci ‘addomestichiamo’ reciprocamente) si costruiscono, si sviluppano e si consolidano solo nel tempo, ed anche perché le cose e le persone si possono conoscere profondamente solo nel tempo, frequentandole con continuità; e quando, per questo stesso motivo, offre la più bella ed efficace definizione di ‘investimento relazionale’ che io conosca, laddove afferma ‘è il tempo che hai dedicato alla tua rosa che l’ha resa così bella’. Ed è proprio nel tempo, infatti, progressivamente, che si è venuto costruendo il mio rapporto con Ostuni ed il Salento, dove ‘ogni cosa è illuminata’ (come nell’evocativo titolo del romanzo di J. Safran Foer): le case bianche spesso inerpicate su colli, con i loro vicoli stretti, e il colore della pietra; i trulli con le loro chianche, le lamie e i muretti a secco; i sassi e le pietre, quindi, e non solo il terreno rosso e scuro; le masserie con il loro fascino e con il loro profilo sempre così diverso; gli ulivi secolari con le loro forme scultoree che li rendono ciascuno un’opera d’arte con una propria ‘personalità’; ma anche i mandorli, i fichi d’india e le agavi; i lunghi filari di vite ma anche quelli piccoli, come strappati ad un destino diverso; il mare con le sue spiagge di sabbia fine e con le dune, ma anche gli scogli che a volte ne ricamano il confine… E man mano che si sviluppava il mio rapporto con i luoghi di questo territorio, si consolidava quello con le persone con le quali in quei luoghi entravo in relazione: sia quelle con le quali avevo rapporti più continuativi che si sono trasformati in rapporti di amicizia[13], sia quelle con le quali avevo rapporti più episodici e ‘funzionali’[14]: e queste relazioni interpersonali e sociali sono state in alcuni casi di tale intensità e comunque generalmente di tale soddisfazione da creare in me una ‘disposizione’ particolarmente positiva verso la comunità locale (che ho percepito come affidabile, prossima, disponibile e in alcuni casi addirittura amichevole); tanto da farmi seriamente riflettere sul rapporto di interazione e di sinergia (e quindi per converso, quando le cose abbiano un segno diverso, di possibile conflitto) tra ‘attaccamento’ ai luoghi e ‘attaccamento’ alle persone e alla comunità. E tanto da farmi pensare che il rapporto di causa-effetto a cui avevo pensato (quello per cui un ‘luogo’ di tale bellezza possa avermi predisposto favorevolmente ai rapporti con le persone che lo abitano) possa anche in realtà essere pensato in senso inverso, nelle tante situazioni (come quella che io ho sperimentato) nelle quali è invece la positività e la gradevolezza dei rapporti sociali e delle ‘esperienze relazionali’ che si realizzano, ad influenzare positivamente la percezione dei luoghi, la nostra ‘immagine mentale’ degli stessi, le emozioni che associamo al nostro ‘mindscape’[15]. [1] I poeti riescono ad esprimere con sintesi straordinaria ciò che la scienza cerca di ‘spiegare’ con il proprio linguaggio: in questo caso, nessuno meglio di John Keats è stato in grado di ‘dare parole’ a ciò che ho appena affermato, quando ha scritto ‘a thing of beauty is a joy forever’
[2] Come dirò meglio oltre, è questa una caratteristica che oggi riconosco ed apprezzo anche nelle città e nei paesi del Salento e della Valle d’Itria, così simili e allo stesso tempo così diversi, ciascuno con la propria identità distintiva: solo per citarne alcuni Ostuni, Carovigno, Martina Franca, Ceglie, Cisternino, Locorotondo, Alberobello, ma poi Gallipoli, Nardò, e tantissimi altri. Ciascuno è un mondo da scoprire, da conoscere, e di cui fare esperienza: una rete policentrica di insediamenti che costituisce la trama di una cultura e di una storia territoriale ed ambientale. [3] Ciò non è accaduto per le Isole del nord dell’Egeo, mentre è accaduto, a dire il vero, anche per alcune delle Isole del Dodecanneso (solo alcune), che sono anch’esse tuttora nel mio cuore; una delle quali (la piccola isola vulcanica di Nysiros) è particolarmente associata nella mia mente alle ‘emozioni’ che la Puglia ed in particolare il Salento con i suoi ‘due mari’ e la Valle d’Itria con i suoi insediamenti urbani e i suoi paesaggi sono stati in grado di sollecitarmi, come cercherò di spiegare meglio oltre. [4] Il ‘mare di ulivi’ (inevitabilmente ‘ingigantito’ dalla memoria di quella ‘prima volta’) che avevo potuto ammirare nella sterminata piana di Delfi, nel mio primo viaggio verso le Cicladi. [5] Tornerò più oltre su questo termine, per precisare il senso attribuito a questo termine nel linguaggio psicologico, ed in particolare, in questo caso, dalla psicoanalisi dello sviluppo infantile. [6] Riconducibili nel loro insieme alla categoria del ‘principio di realtà’ (in tensione dialettica con il ‘principio del piacere’), nella capacità di confronto con il quale si misura la nostra maturità, nel pensiero di Freud. [7] Preciserò meglio oltre nel testo in che senso vada intesa questa espressione, che si deve allo scrittore Antoine de Saint-Exupery che la utilizza nel suo incantevole testo ‘Il piccolo principe’ in cui, nel dialogo tra il protagonista e la volpe, l’addomesticare viene definito come un processo volto a ‘creare dei legami’. [8] Nella luce abbagliante delle giornate d’estate, oppure nella meravigliosa luce artificiale con la quale viene illuminata di notte (e che da lontano la fa apparire ‘fiammeggiante’), Ostuni è in grado di trasmettere emozioni che sfidano la capacità di esprimerle con parole che non appaiano banali. Ma prima di conoscerla e di esserne ‘addomesticati’, la vedevamo con occhi diversi: mia moglie ricorda che quando in moto percorrevamo la strada verso Brindisi per imbarcarci sul traghetto per Patrasso (prima tappa verso le Cicladi) ‘gettavamo lo sguardo’ fugacemente sulla città bianca, e questo ci consentiva di anticipare visivamente qualcosa del paesaggio che avremmo trovato tra breve di là dal mare, facendoci aumentare ancor più il desiderio di affrettarci a raggiungerlo. [9] Beninteso, da psicologo sono profondamente convinto della ‘incommensurabilità’ di ciascuno di noi, dell’universo unico ed irripetibile che ciascuno di noi rappresenta, dello ‘sguardo’ assolutamente idiosincratico che ciascuno ha sulle cose del mondo: ma ciò non contrasta con il desiderio di comprendere se e che cosa ci accomuna, nei nostri percorsi di vita. [10] Il rapporto di complementarietà tra figura e sfondo è analizzato in modo particolarmente interessante dalla ‘psicologia della Gestalt’. [11] Può essere utile ricordare l’etimologia del termine ‘esperienza’, che deriva dal termine latino composto ‘ex-per-ire’, che significa letteralmente ‘attraversare’; per questo motivo a me piace parlare di ‘attraversamento personale’: non solo dei luoghi, ma anche delle situazioni. Ho trattato di questo in ‘Il mestiere di vivere nella società delle transizioni’ (cfr. P.G.Bresciani M.Franchi ‘Biografie in transizione. I progetti lavorativi nell’epoca della flessibilità’ Franco Angeli 2006). [12] Mi è capitato in diversi contributi di sottolineare questa ‘competenza’ particolare che consiste nella capacità di sostare nell’incertezza senza farsene angosciare, e soprattutto senza reagire all’ansia che ne deriva ‘affrettando’ in modo improprio le proprie decisioni (cfr. P.G.Bresciani ‘Competenze per la transizione’ in ‘Rivista dell’istruzione’ n.6, 2008). [13] Mi fa piacere ricordare qui in particolare Aldo e Rosanna, Bonaventura ed Angela, Vittoria e Giuseppe. [14] Penso agli artigiani che ho conosciuto, ai commercianti, ai ristoratori, ai titolari di alberghi e masserie, ai baristi, ai farmacisti, e i tanti altri soggetti che si ho incontrato ‘vivendo la mia vita’ nei diversi momenti nei quali sono riuscito a ‘stare’ ad Ostuni. [15] D’altra parte, da psicologo del lavoro so bene che il lavoro è sempre anche intessuto di una dimensione sociale, sia reale (i colleghi e/o i collaboratori, i superiori, i clienti e gli utenti, i tanti e diversi tipi di soggetti con cui si entra in relazione nelle transazioni necessarie per ‘fare bene il proprio lavoro’), sia immaginaria (la rappresentazione che ci facciamo di questi diversi interlocutori, ed il ruolo che ad essi assegnamo nel nostro ‘teatro interno’, che è proprio ciò che spesso fa problema). Le metodologie di intervento della psicologia del lavoro vengono utilizzate infatti a volte proprio per analizzare e migliorare il funzionamento delle persone e delle organizzazioni a questo livello (si pensi, per fare soltanto un esempio, alle analisi del ‘clima organizzativo’). Così come una buona psicologia del lavoro non può che essere anche una psicologia sociale, mi pare che altrettanto debba dirsi di una buona psicologia ambientale.
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