Tratto da A. e R. Flore (a cura) 'Il tempo della pietra', Adda editore, 2012. Alcuni anni fa, sollecitato dall’Arch. Flore a contribuire ‘con uno sguardo da psicologo’ al volume ‘Il tempo della pietra’ (Adda editore; volume centrato sulla descrizione di un intervento particolarmente significativo di riprogettazione dell’ambiente realizzato in Valle d’Itria, per incarico dell’oncologo ed ex ministro prof. Veronesi) sollecitato e attratto da questa prospettiva ho alla fine deciso di accettare la sua proposta, reinterpretandola però (come sempre più spesso mi capita di fare) in chiave meta-cognitiva. L’impegno ha quindi costituito per me l’occasione per svolgere una riflessione sul mio rapporto con l’ambiente, e in particolare con quello specifico tipo di ambiente costituito da quel ‘perimetro di bellezza’ di cui in quegli anni mi era capitato di fare personalmente esperienza vivendo tra Ostuni, Valle d’Itria e Salento. Questa riflessione, come si potrà verificare proseguendo nella lettura, è pubblicata nel blog in tre passaggi, che ho chiamato ‘movimenti’, per indicare il rapporto dinamico tra di essi:
<
>
Dalla Grecia a Ostuni, la Valle d'Itria, il Salento. Riflessioni autobiografiche su un cambiamento di prospettiva Fino a pochi anni fa, quando pensavo all’ambiente ideale, per me ‘esisteva solo la Grecia’; anzi, più precisamente, esistevano solo le isole Cicladi: che avevo cominciato a conoscere ormai trentenne, nei primi indimenticabili viaggi in moto con mia moglie, durante i quali progressivamente si era ‘fissato’ in modo indelebile nei nostri occhi, nei nostri sensi e nella nostra memoria (non a caso si parla oggi di mindscape, di ‘paesaggio mentale’) quel repertorio straordinario di immagini bellissime, che si è venuto componendo ed arricchendo di anno in anno (e che ancora permane in noi, come un prezioso scrigno di gioie[1]) durante quello che è diventato nel tempo un itinerario di progressiva scoperta, di appropriazione e di vera e propria identificazione con quel paesaggio, quella luce e quei colori, quei suoni e quei silenzi, quel linguaggio, quel cibo e quel vino (sì, amavo anche il retsìna, il vino resinato e di botte così lontano dalla ‘perfezione’ dei tanti vini che pure ho poi imparato ad apprezzare…). Le Cicladi, tutte le Cicladi, ciascuna a suo modo e ciascuna rappresentando un mondo specifico ed unico[2], con la sua peculiare identità, erano in grado di trasmettermi allo stesso tempo un senso di pienezza estetica e di benessere esistenziale; nelle Cicladi mi sentivo ‘a casa’, le vivevo come un ambiente amichevole e addirittura familiare, in totale corrispondenza con le mie esigenze più profonde[3]. A chi mi avesse chiesto, anche solo dieci anni fa, da quale ambiente mi sentissi attratto, a quale ambiente mi sentissi legato, in quale ambiente avrei voluto, potendolo, ritirarmi ad un certo punto della mia vita per dedicarmi alle cose che amo e che più mi fanno sentire libero (leggere e studiare, scrivere, passeggiare, contemplare il mare), avrei risposto senza alcuna esitazione che il mio desiderio era quello così ben rappresentato da tanta parte della iconografia cicladica: una piccola casa bianca, con il tetto piatto, con una bella veranda ed un grande terrazzo dai quali si potesse vedere il mare, con intorno il verde argentato degli ulivi[4], immersa nel silenzio. E ciò non perché fossi stato ammaliato da qualche bella immagine occhieggiata fugacemente su un settimanale o in una delle tante trasmissioni televisive che oggi ‘promuovono’ i tanti luoghi dell’Italia e del mondo, ma perché ero stato testimone ‘mille volte’ di quel tipo di immagine, ed avevo vissuto personalmente, immerso in situazioni reali nelle quali anche io avevo fatto parte di quel paesaggio, uno stato mentale (cognitivo, emotivo) che aveva contribuito a creare in me un vero e proprio ‘attaccamento’[5]. In questi dieci anni, le cose per me sono rimaste quelle, ma allo stesso tempo sono profondamente cambiate; per questo ne scrivo in questo volume: perché la Puglia e in particolare ai miei occhi il Salento e la Valle d’Itria (con il loro paesaggio, con la loro luce e i loro colori, con il loro suoni e i loro silenzi, con il loro linguaggio, con il loro cibi e i loro vini) hanno progressivamente, dolcemente ma altrettanto solidamente ‘sovrascritto’ nella mia mente (e nel mio cuore, dovrei più propriamente dire) l’immagine delle isole Cicladi che così a lungo e con tanto coinvolgimento emotivo ho elaborato, e che fa ormai parte di me, inscritta come è nell’hardware dei miei circuiti cerebrali. E’ accaduto infatti che per un insieme di motivi diversi[6] la prospettiva, che avevo per qualche tempo accarezzato, di potere acquistare un terreno ed una piccola casa in un’isola dell’Egeo si è rivelata impraticabile, ed allora ho accettato (inizialmente, è giusto riconoscerlo, come se si trattasse in qualche modo di una mediazione necessaria, rispetto al mio ‘vero’ obiettivo: come in quei processi di realistica negoziazione con sé stessi che caratterizzano la fase di maturità della nostra esistenza) la sollecitazione, da parte di alcuni amici che avevano già fatto questo tipo di scelta, a prendere in considerazione la possibilità di riorientare verso il territorio della città di Ostuni i miei progetti di ‘buen retiro’ per il futuro. Ho cominciato quindi circa otto anni fa a frequentare con una certa assiduità il Salento e la Valle d’Itria, che erano stati per me in passato soltanto meta occasionale di viaggi brevi, che non avevano sedimentato in me una particolare ‘consistenza’ (di immagini, di sensazioni, di esperienze, di emozioni), nè avevano contribuito al loro radicamento, o allo sviluppo in me di un sentimento di inclusione e di appartenenza a questi luoghi, e di prossimità e di familiarità rispetto alle persone che li abitano; né un particolare desiderio di farvi ritorno, e tantomeno di pensare ad un futuro di mia maggiore e più stabile presenza in questo territorio. All’inizio di quello che si sarebbe rivelato un progressivo percorso di ‘addomesticamento’[7], Ostuni (‘la città bianca’) con la sua iconografia, costituiva per me essenzialmente ‘la cosa più simile ad un chòra greca’ che io potessi immaginare, ed anzi rappresentava in qualche modo ‘la più bella chòra che avessi mai visto[8]’: ed è stata quindi inizialmente in particolare questa ‘somiglianza’ la ragione del mio volgere l’attenzione verso questa nuova destinazione, questo nuovo ‘ambiente’. Il mio interesse e la mia disponibilità (la mia motivazione, potremmo dire) a cercare un ‘insediamento’ nel Salento originavano quindi essenzialmente dall’inconscio e comprensibile desiderio di tentare di ritrovare sensazioni, emozioni, esperienze quanto più simili fosse possibile a quelle che avevo sperimentato nelle Cicladi, e quindi ai contesti (l’ambiente, il paesaggio, la ‘cultura materiale’) nei quali avevo ripetutamente avuto la possibilità di sperimentarle, tanto da creare in me la convinzione che tale sensazione di benessere, di serenità e di pienezza esistenziale fosse da ricondurre unicamente a quelle isole, in un rapporto di causa-effetto. Ebbene, ciò che è avvenuto in me in questi anni costituisce invece un risultato del tutto inatteso, del quale vorrei in queste poche pagine offrire testimonianza; e che vorrei cercare di rileggere, di interpretare e di verificare (oltre la mia ricostruzione autobiografica) alla luce di alcune acquisizioni di quell’ambito delle discipline psicologiche che si definisce ‘psicologia ambientale’: per capire se e in che misura ciò di cui ho avuto personalmente esperienza sia qualcosa di unico ed irripetibile (cedendo in questo modo a quella tentazione un poco narcisistica che tutti abbiamo di sentirci ‘speciali’[9]), oppure se possa essere riletto alla luce di categorie interpretative più generali, che siano in grado di renderne ragione e di ricondurlo non dico a ‘leggi’ di qualche tipo, ma quantomeno a ‘regole’ oppure a ‘dinamiche tipiche’. Credo che valga la pena di tentare questo esercizio non soltanto perché esso è rilevante per la mia riflessione personale, ma anche perché esso sembra potere essere di qualche interesse anche per la riflessione di tutti coloro che a vari livelli e con diversa collocazione professionale o istituzionale si occupano di favorire lo sviluppo di relazioni positive tra le persone (in particolare quelle che attualmente non vi abitano) ed i territori, e in questo caso il territorio della Puglia e del Salento: ad esempio architetti, urbanisti, imprenditori dell’edilizia e del turismo, associazioni professionali e di imprese legate alla valorizzazione del territorio, amministratori pubblici. Come ho anticipato, la natura di ciò che è avvenuto a me sembra sia quella un processo di ‘addomesticamento’, da parte di Ostuni e del Salento, nei mie confronti: un processo lento e progressivo al termine del quale a ben vedere ‘nulla è cambiato’ (le Cicladi sono dove e come sono sempre state, Ostuni e il Salento sono dove e come sono sempre stati; in entrambi i casi, con il processo evolutivo che nel tempo si è realizzato per mano dell’uomo), ma allo stesso tempo ‘tutto è cambiato’ (la mia ‘disposizione’ interiore nei confronti delle prime permane ed è certo ancora positiva, ma risulta come più attenuata e ‘sullo sfondo’; mentre nella mia mente e nel mio cuore progressivamente i secondi hanno preso il sopravvento e sono ora ‘in figura’[10], si sono insediati, mi hanno conquistato, perché in essi sono riuscito ad avere concreta esperienza[11] di ciò che ha particolare valore per me). La grande letteratura esprime con straordinaria capacità di sintesi e di evocazione emotiva ciò che il linguaggio scientifico è inevitabilmente portato invece ad analizzare in modo più tecnico e a volte algido: per questo preferisco utilizzare nella mia ricostruzione soggettiva la letteratura per cercare di comunicare la natura del fenomeno del quale ho potuto avere personalmente esperienza: nel testo di Antoine de Saint-Exupery, ‘se tu mi addomesticherai’, dice la volpe al principe, allora ‘noi avremo bisogno l’uno dell’altro’, ed aggiunge ‘non si conoscono che le cose che si addomesticano’ (per questo, afferma, oggi gli uomini ‘non hanno più il tempo di conoscere nulla’). ‘Occorre essere molto pazienti’, ammonisce la volpe; e parlando delle rose, ricorda al piccolo principe che proprio il fatto di avere dedicato tanto tempo e tanta cura ad una di esse, la rende oggi così unica ai suoi occhi. Gli insegnamenti della volpe esprimono una saggezza straordinaria: quando ricorda la crucialità della creazione di legami (non solo tra persone, va aggiunto, ma anche tra persone e luoghi, ambienti, territori, comunità) per la qualità della nostra esistenza; quando richiama la necessità di essere pazienti, di ‘darsi tempo’[12], perché i legami (attraverso i quali ‘ci ‘addomestichiamo’ reciprocamente) si costruiscono, si sviluppano e si consolidano solo nel tempo, ed anche perché le cose e le persone si possono conoscere profondamente solo nel tempo, frequentandole con continuità; e quando, per questo stesso motivo, offre la più bella ed efficace definizione di ‘investimento relazionale’ che io conosca, laddove afferma ‘è il tempo che hai dedicato alla tua rosa che l’ha resa così bella’. Ed è proprio nel tempo, infatti, progressivamente, che si è venuto costruendo il mio rapporto con Ostuni ed il Salento, dove ‘ogni cosa è illuminata’ (come nell’evocativo titolo del romanzo di J. Safran Foer): le case bianche spesso inerpicate su colli, con i loro vicoli stretti, e il colore della pietra; i trulli con le loro chianche, le lamie e i muretti a secco; i sassi e le pietre, quindi, e non solo il terreno rosso e scuro; le masserie con il loro fascino e con il loro profilo sempre così diverso; gli ulivi secolari con le loro forme scultoree che li rendono ciascuno un’opera d’arte con una propria ‘personalità’; ma anche i mandorli, i fichi d’india e le agavi; i lunghi filari di vite ma anche quelli piccoli, come strappati ad un destino diverso; il mare con le sue spiagge di sabbia fine e con le dune, ma anche gli scogli che a volte ne ricamano il confine… E man mano che si sviluppava il mio rapporto con i luoghi di questo territorio, si consolidava quello con le persone con le quali in quei luoghi entravo in relazione: sia quelle con le quali avevo rapporti più continuativi che si sono trasformati in rapporti di amicizia[13], sia quelle con le quali avevo rapporti più episodici e ‘funzionali’[14]: e queste relazioni interpersonali e sociali sono state in alcuni casi di tale intensità e comunque generalmente di tale soddisfazione da creare in me una ‘disposizione’ particolarmente positiva verso la comunità locale (che ho percepito come affidabile, prossima, disponibile e in alcuni casi addirittura amichevole); tanto da farmi seriamente riflettere sul rapporto di interazione e di sinergia (e quindi per converso, quando le cose abbiano un segno diverso, di possibile conflitto) tra ‘attaccamento’ ai luoghi e ‘attaccamento’ alle persone e alla comunità. E tanto da farmi pensare che il rapporto di causa-effetto a cui avevo pensato (quello per cui un ‘luogo’ di tale bellezza possa avermi predisposto favorevolmente ai rapporti con le persone che lo abitano) possa anche in realtà essere pensato in senso inverso, nelle tante situazioni (come quella che io ho sperimentato) nelle quali è invece la positività e la gradevolezza dei rapporti sociali e delle ‘esperienze relazionali’ che si realizzano, ad influenzare positivamente la percezione dei luoghi, la nostra ‘immagine mentale’ degli stessi, le emozioni che associamo al nostro ‘mindscape’[15]. [1] I poeti riescono ad esprimere con sintesi straordinaria ciò che la scienza cerca di ‘spiegare’ con il proprio linguaggio: in questo caso, nessuno meglio di John Keats è stato in grado di ‘dare parole’ a ciò che ho appena affermato, quando ha scritto ‘a thing of beauty is a joy forever’ [2] Come dirò meglio oltre, è questa una caratteristica che oggi riconosco ed apprezzo anche nelle città e nei paesi del Salento e della Valle d’Itria, così simili e allo stesso tempo così diversi, ciascuno con la propria identità distintiva: solo per citarne alcuni Ostuni, Carovigno, Martina Franca, Ceglie, Cisternino, Locorotondo, Alberobello, ma poi Gallipoli, Nardò, e tantissimi altri. Ciascuno è un mondo da scoprire, da conoscere, e di cui fare esperienza: una rete policentrica di insediamenti che costituisce la trama di una cultura e di una storia territoriale ed ambientale. [3] Ciò non è accaduto per le Isole del nord dell’Egeo, mentre è accaduto, a dire il vero, anche per alcune delle Isole del Dodecanneso (solo alcune), che sono anch’esse tuttora nel mio cuore; una delle quali (la piccola isola vulcanica di Nysiros) è particolarmente associata nella mia mente alle ‘emozioni’ che la Puglia ed in particolare il Salento con i suoi ‘due mari’ e la Valle d’Itria con i suoi insediamenti urbani e i suoi paesaggi sono stati in grado di sollecitarmi, come cercherò di spiegare meglio oltre. [4] Il ‘mare di ulivi’ (inevitabilmente ‘ingigantito’ dalla memoria di quella ‘prima volta’) che avevo potuto ammirare nella sterminata piana di Delfi, nel mio primo viaggio verso le Cicladi. [5] Tornerò più oltre su questo termine, per precisare il senso attribuito a questo termine nel linguaggio psicologico, ed in particolare, in questo caso, dalla psicoanalisi dello sviluppo infantile. [6] Riconducibili nel loro insieme alla categoria del ‘principio di realtà’ (in tensione dialettica con il ‘principio del piacere’), nella capacità di confronto con il quale si misura la nostra maturità, nel pensiero di Freud. [7] Preciserò meglio oltre nel testo in che senso vada intesa questa espressione, che si deve allo scrittore Antoine de Saint-Exupery che la utilizza nel suo incantevole testo ‘Il piccolo principe’ in cui, nel dialogo tra il protagonista e la volpe, l’addomesticare viene definito come un processo volto a ‘creare dei legami’. [8] Nella luce abbagliante delle giornate d’estate, oppure nella meravigliosa luce artificiale con la quale viene illuminata di notte (e che da lontano la fa apparire ‘fiammeggiante’), Ostuni è in grado di trasmettere emozioni che sfidano la capacità di esprimerle con parole che non appaiano banali. Ma prima di conoscerla e di esserne ‘addomesticati’, la vedevamo con occhi diversi: mia moglie ricorda che quando in moto percorrevamo la strada verso Brindisi per imbarcarci sul traghetto per Patrasso (prima tappa verso le Cicladi) ‘gettavamo lo sguardo’ fugacemente sulla città bianca, e questo ci consentiva di anticipare visivamente qualcosa del paesaggio che avremmo trovato tra breve di là dal mare, facendoci aumentare ancor più il desiderio di affrettarci a raggiungerlo. [9] Beninteso, da psicologo sono profondamente convinto della ‘incommensurabilità’ di ciascuno di noi, dell’universo unico ed irripetibile che ciascuno di noi rappresenta, dello ‘sguardo’ assolutamente idiosincratico che ciascuno ha sulle cose del mondo: ma ciò non contrasta con il desiderio di comprendere se e che cosa ci accomuna, nei nostri percorsi di vita. [10] Il rapporto di complementarietà tra figura e sfondo è analizzato in modo particolarmente interessante dalla ‘psicologia della Gestalt’. [11] Può essere utile ricordare l’etimologia del termine ‘esperienza’, che deriva dal termine latino composto ‘ex-per-ire’, che significa letteralmente ‘attraversare’; per questo motivo a me piace parlare di ‘attraversamento personale’: non solo dei luoghi, ma anche delle situazioni. Ho trattato di questo in ‘Il mestiere di vivere nella società delle transizioni’ (cfr. P.G.Bresciani M.Franchi ‘Biografie in transizione. I progetti lavorativi nell’epoca della flessibilità’ Franco Angeli 2006). [12] Mi è capitato in diversi contributi di sottolineare questa ‘competenza’ particolare che consiste nella capacità di sostare nell’incertezza senza farsene angosciare, e soprattutto senza reagire all’ansia che ne deriva ‘affrettando’ in modo improprio le proprie decisioni (cfr. P.G.Bresciani ‘Competenze per la transizione’ in ‘Rivista dell’istruzione’ n.6, 2008). [13] Mi fa piacere ricordare qui in particolare Aldo e Rosanna, Bonaventura ed Angela, Vittoria e Giuseppe. [14] Penso agli artigiani che ho conosciuto, ai commercianti, ai ristoratori, ai titolari di alberghi e masserie, ai baristi, ai farmacisti, e i tanti altri soggetti che si ho incontrato ‘vivendo la mia vita’ nei diversi momenti nei quali sono riuscito a ‘stare’ ad Ostuni. [15] D’altra parte, da psicologo del lavoro so bene che il lavoro è sempre anche intessuto di una dimensione sociale, sia reale (i colleghi e/o i collaboratori, i superiori, i clienti e gli utenti, i tanti e diversi tipi di soggetti con cui si entra in relazione nelle transazioni necessarie per ‘fare bene il proprio lavoro’), sia immaginaria (la rappresentazione che ci facciamo di questi diversi interlocutori, ed il ruolo che ad essi assegnamo nel nostro ‘teatro interno’, che è proprio ciò che spesso fa problema). Le metodologie di intervento della psicologia del lavoro vengono utilizzate infatti a volte proprio per analizzare e migliorare il funzionamento delle persone e delle organizzazioni a questo livello (si pensi, per fare soltanto un esempio, alle analisi del ‘clima organizzativo’). Così come una buona psicologia del lavoro non può che essere anche una psicologia sociale, mi pare che altrettanto debba dirsi di una buona psicologia ambientale. Il nostro rapporto con i luoghi e gli ambenti. Alcune suggestioni dalla psicologia ambientale Vorrei quindi ora tentare di rileggere la mia esperienza personale di sviluppo di una relazione così intensa e così ‘appagante’ con questa parte della Puglia per verificare se e in che misura, in quella parte delle discipline psicologiche che si definisce ‘psicologia ambientale’[1], sia possibile rinvenire concetti, approcci e modelli interpretativi da un lato consonanti con quanto ho sperimentato (ed ho richiamato nel primo movimento) e dall’altro lato in grado di argomentare in modo magari meno ‘emotivamente coinvolgente’ di quanto non consenta il linguaggio della poesia e della letteratura, e con il supporto di dati di ricerca, le affermazioni che ho proposto fino ad ora in particolare in relazione agli aspetti affettivi della mia relazione con Ostuni e il Salento. Secondo tale prospettiva scientifica, ‘l’attaccamento’ che le persone possono sviluppare verso i luoghi (e le cui dimensioni principali sono l’intensità, la continuità, la durata, la qualità emozionale e la consapevolezza; e che varia in funzione dell’età e della dipendenza dell’individuo dall’ambiente) ha profonde analogie con l’attaccamento affettivo di un bambino alla persona di riferimento. La teoria dell’attaccamento è stata elaborata dallo psicoanalista inglese J. Bowlby e riguarda il particolare tipo di legame che si crea tra il bambino e la persona che si prende cura di lui (generalmente, ma non necessariamente, la madre). Sulla base di tale teoria, sono stati studiati diversi ‘stili’ che riflettono altrettante modalità specifiche di esplorazione dell’ambiente da parte dell’individuo (definiti come ‘stile sicuro’; ‘stile insicuro ansioso-ambivalente’; e ‘stile insicuro ansioso-evitante’): tale riferimento all’infanzia è considerato rilevante, poiché in età adulta l’individuo tenderebbe a riprodurre nelle sue relazioni affettive il modello di attaccamento sperimentato in quella fase della propria esistenza. Un aspetto particolarmente rilevante della teoria di Bowlby è quello che riguarda quello che viene definito ‘attaccamento sicuro’[2]: una forma di relazione la cui concreta sperimentazione costituisce, secondo questo autore, la condizione primaria affinchè le persone possano poi costruire ulteriori forme di attaccamento. Diversi autori hanno sottolineato le analogie tra l’attaccamento affettivo alle persone e l’attaccamento ai luoghi: A.M. Baroni[3], ad esempio, richiamando il contributo del celebre psicoanalista D.W. Winnicott sulla relazione madre-bambino[4] nello sviluppo affettivo, rileva come il concetto di ‘ambiente’ debba essere considerato in senso ampio; per ciò che riguarda il contenuto di queste mie considerazioni, ciò significa che un conto è parlare di ‘luoghi’ (limitandosi ai tipi di ‘oggetti’ in essi contenuti, agli spazi, alla disposizione degli stessi), e altro conto invece è parlare di ‘ambiente’ (includendo in tale accezione, oltre ai luoghi, anche le persone, le comunità locali e le loro culture, etc.): perché la nostra relazione con i luoghi è sempre mediata dalle relazioni sociali[5] (sia quelle reali; sia quelle che nel nostro immaginario hanno luogo sulla base delle nostre esperienze e rappresentazioni antecedenti, e delle aspettative, dei timori, delle ansie, degli stereotipi ed a volte dei veri e propri pregiudizi che tali esperienze e rappresentazioni hanno contribuito a sedimentare in noi). Come è facilmente intuibile, c’è uno stretto legame tra attaccamento e dipendenza, e anche all’origine dell’attaccamento ai luoghi c’è sempre una forma di dipendenza: naturalmente, nell’arco dello sviluppo di un normale lifecycle[6], la dipendenza è massima nella prima infanzia, decresce progressivamente con l’età, man mano che l’individuo sviluppa la propria ‘competenza ambientale’ (che alcuni autori definiscono come ‘capacità di affrontare con successo i problemi spaziali, sociali e lavorativi propri dell’età adulta’), per aumentare di nuovo in misura diversa nell’età anziana: ed è interessante osservare che in quest’ultima fase dell’esistenza aumenta non solo la dipendenza ‘oggettiva’ dai luoghi (da cui l’importanza della assenza di barriere architettoniche; della presenza di vicinato; della prossimità di servizi sociali e sanitari), ma anche quella ‘affettiva’, confermando che le circostanze della vita in cui siamo più deboli (e nella quale massima è la vulnerabilità che percepiamo) sono quelle che contribuiscono in modo decisivo a consolidare il nostro ‘attaccamento’ ai luoghi che abitiamo. Nei testi di psicologia ambientale si sostiene che in ogni caso, una parte più o meno grande della nostra identità personale è costituita dai sentimenti di attaccamento ai luoghi, attaccamento che si manifesta con una intensità molto variabile, che va da una generica preferenza per certi tipi di ambienti ad un legame particolarmente forte con un territorio o un luogo specifico, che può sfociare nella topofilìa[7]. Ora, certamente quando consideriamo l’attaccamento descritto dalla letteratura psicologica, possiamo riferirci ad una situazione ‘oggettiva’, che ha a che fare con la ‘struttura’ della relazione dell’individuo con esso, e che riguarda il suo più o meno temporaneo stato di inadeguatezza a provvedere a sè stesso e la sua contingente vulnerabilità; e che specularmente ha a che fare con la presenza di un soggetto (la madre) e di un contesto (un luogo; o meglio ancora un ‘ambiente’, nella accezione che ho proposto in precedenza citando il richiamo di D.Winnicott alla coessenzialità della dimensione sociale quale componente altrettanto cruciale per la qualità complessiva del nostro vissuto, di ciò di cui facciamo esperienza) in grado di fornire sia un concreto supporto e sia, per questa via, un ancoraggio (fungendo da ‘porto sicuro’ al quale approdare ed ancorarsi). Ma al di là di tutto questo, che ha a che fare direi con la ‘materialità’ della relazione, quali sono gli altri fattori, di natura diversa, che entrano in gioco nel determinare le diverse forme di ‘attaccamento’ che è dato riscontrare? Come dirò meglio in seguito, quando ci spostiamo sul piano del rapporto delle persone con i luoghi/ambienti, i contributi della psicologia ambientale richiamano almeno altri due tipi di fattori che influenzano in modo decisivo, stanti gli studi e le ricerche effettuati in questo ambito, la forma e l’intensità dell’attaccamento: da un lato le caratteristiche delle persone (preferenze, interessi, scopi, tratti di personalità, auto-rappresentazioni, etc.); dall’altro le risorse che quel luogo/ambiente è in grado di costruire e di mettere a loro disposizione come opportunità e addirittura come ‘sollecitazione all’uso’ (affordance). Secondo un approccio teorico che si definisce non a caso ‘interazionista’, è nella concreta interazione tra questi diversi tipi di fattori che va ricercata la chiave interpretativa del maggiore o minore sviluppo di ciò che abbiamo definito ‘attaccamento’ tra persone e luoghi: e quindi (cosa particolarmente rilevante per i professionisti, gli operatori economici, e le stesse istituzioni pubbliche) è nella analisi di come avviene tale concreta interazione e di quali elementi sono in grado di influenzarla (in positivo e in negativo), e successivamente nella progettazione di strategie di intervento finalizzate a migliorare la qualità di tale interazione e i suoi concreti effetti, che si possono trovare soluzioni di massimizzazione dei risultati desiderabili, che a seconda delle finalità e degli interessi potranno consistere ad esempio nel miglioramento benessere individuale, della qualità urbana, della convivenza civile, o della attrattività territoriale. La psicologia ambientale ha cercato di studiare le ‘condizioni’ in base alle quali un individuo (con tutte le sue caratteristiche personali, le sue esperienze passate, le sue intenzioni ed i suoi scopi attuali) è portato a provare emozioni positive[8] nei confronti di un ambiente: in particolare, alcuni autori hanno sviluppato interessanti schemi e modelli di interpretazione di ciò che viene definito ‘affective appraisal’ (la valutazione affettiva che di un ambiente effettuano le persone). L’approccio ‘classico’ poi oggetto di numerose rivisitazioni è quello di S. Kaplan, che distingue quattro tipi di condizioni che dovrebbero essere soddisfatte per dare luogo alla valutazione affettiva positiva: coerenza, comprensibilità, leggibilità, mistero. La coerenza richiama l’esigenza che un ambiente non sfidi oltre una certa soglia la capacità delle persone che lo vivono di categorizzarlo, ‘mapparlo’ e riconoscerlo in modo non troppo impegnativo, e difforme dai propri schemi cognitivi, dalle proprie rappresentazioni e aspettative. La leggibilità, che risulta correlata alla coerenza, presuppone la disponibilità di un sistema di informazioni (ma potremmo dire meglio di ‘segni’, in una prospettiva semiotica) che facilitano la comprensione e quindi la fruizione dell’ambiente (si pensi ad un locale pubblico, ad una casa privata, ad un quartiere, ad una città, o come nel caso del Salento ad un territorio ampio; ed alle implicazioni che ne derivano se si intende migliorare la ‘valutazione affettiva positiva’ di coloro che stabilmente o temporaneamente vi vivono[9]). La complessità richiama l’esigenza che un ambiente costituisca (anche in questo caso non oltre una certa soglia, proprio per non ostacolare la necessaria leggibilità) un contesto sufficientemente complesso ed articolato (e cioè ricco di stimoli percettivi) da sollecitare la ‘attivazione’ delle facoltà individuali, con effetti di piacevolezza e benessere. Infine, il mistero ha a che fare con uno dei bisogni individuali più antichi (sia nella storia dell’uomo che nella storia di ciascuno) e profondi, che è quello della esplorazione e della scoperta: e riguarda quella particolare caratteristica per cui un ambiente riesce a trasmetterci la sensazione di contenere informazioni ulteriori per noi interessanti ed accessibili (di qui l’attrattività, e l’interesse a procedere ulteriormente nella esplorazione e nella fruizione). Naturalmente (e questo è un aspetto che da psicologo trovo particolarmente interessante) il fatto che le quattro caratteristiche indicate (coerenza, comprensibilità, leggibilità, mistero) costituiscano i criteri in base ai quali le persone giungono a formulare la propria valutazione affettiva su un ambiente, non significa che i giudizi risultino omogenei: perché, come abbiamo sottolineato, lo stesso tipo di ‘condizione ambientale’ viene percepita e ‘filtrata’ da un lato in base alle caratteristiche specifiche delle singole persone[10], e dall’altro lato in base al tipo di relazione che concretamente si instaura tra l’ambiente e le persone durante tale processo. Un modello che tiene conto di quanto ho appena affermato è il ‘modello della discrepanza’ di A.T. Purcell, che attribuisce importanza alle esperienze precedenti dei soggetti, e che richiama il concetto di ‘schema ambientale’ (l’esemplare prototipico che abbiamo in mente quando percepiamo un ambiente, e cioè lo schema che attiviamo nel leggerlo, ed a cui siamo portati a compararlo). Secondo questa teoria, il meta-criterio in base al quale le persone valutano ‘emotivamente’ i luoghi è costituito dal ‘grado di discrepanza’ tra il proprio schema ambientale preesistente e le caratteristiche del luogo che si sta valutando: tale luogo sarà valutato tanto più positivamente quanto più esso verrà vissuto come abbastanza nuovo e accattivante (ma non così distante dalle aspettative preesistenti da creare ostacoli ai processi cognitivi) così da indurre uno stato di ‘attivazione’ del soggetto[11]. Modelli come questo hanno naturalmente sollecitato molte riflessioni e lavori di ricerca sul ruolo ‘decisivo’ delle variabili individuali nella determinazione della valutazione affettiva sui luoghi e gli ambienti: sia nel senso della variabilità tra persone diverse, sia nel senso della variabilità tra fasi diverse della vita delle stesse persone (lifecycle). Se tutto dipende dalla coerenza con il prototipo che abbiamo in mente, infatti, e dal livello di coerenza o somiglianza tra tale prototipo e l’ambiente al quale stiamo pensando o che stiamo abitando, allora è evidente che il ‘metro di misura’ di tale giudizio valutativo sarà differente da persona a persona, sulla base delle specifiche soggettività (tratti di personalità, atteggiamenti, motivazioni, etc.). Ma se ‘ciascuno è diverso’, come orientare i propri comportamenti quando si tratta di fare scelte che hanno un impatto collettivo, come quelle architettoniche, urbanistiche, turistiche, o di sviluppo territoriale? A quali principi ispirarsi, per identificare soluzioni che possano massimizzare l’impatto, l’utilità, o anche la desiderabilità delle soluzioni proposte? Un esempio del modo in cui il pensiero scientifico cerca di uscire dalla impasse che si crea con approcci ‘individualisti’ è quello di verificare la possibilità di ricondurre i comportamenti individuali a ‘tipi’ in qualche modo omogenei ai quali questi possano essere ricondotti. Ad esempio, per ciò che riguarda il rapporto con l’ambiente, M. Zuckermann propone di distinguere tra ‘sensation seekers’ (soggetti alla ricerca di sensazioni, che amano un elevato grado di sollecitazione e di attivazione cognitiva ed emotiva) e ‘sensation avoiders’ (soggetti che invece cercano di evitare le sensazioni, preferiscono decisamente le situazioni tranquille, note, in cui non ci sia troppo da scoprire o da cui non ci sia da attendersi troppa ‘novità’). Con riferimento specifico agli ambienti naturali, inoltre, è stata analizzata la funzione di ‘restorativeness’ del paesaggio naturale (il verde, le piante, l’acqua, la pietra, la terra, lo stesso paesaggio nel suo insieme…), e cioè la sua capacità di aiutare le persone a recuperare il proprio benessere psicologico, che risulta messo a dura prova da diversi tipi di stress (tra i quali quello urbano). Anche R.S. Ulrich e colleghi hanno studiato l’effetto ‘rigenerante’ degli ambienti naturali con determinate caratteristiche per i processi cognitivi ed affettivi compromessi dallo stress (ed indirettamente quindi anche per gli stessi processi fisici di guarigione); così come a loro volta S. Kaplan e R. Kaplan hanno osservato la differenza in termini di ‘attenzione’ tra situazione patologica e situazione positiva, laddove la differenza è data dal carattere del tutto particolare del tipo di attenzione che viene sollecitata dall’ambiente naturale positivo: non l’attenzione volontaria, continua, faticosa che è richiesta dagli ambienti di lavoro e dagli ambienti urbani, ma quel tipo di attenzione involontaria, sostanzialmente automatica, alla quale hanno dato il nome di ‘fascination’, che esprime efficacemente il tipo di ‘attrazione’ che l’ambiente naturale (quando è ‘un bell’ambiente’ per un individuo) è in grado di suscitare[12]. [1] I richiami che farò sono ispirati in particolare alle considerazioni svolte da A.M.Baroni in ‘Psicologia ambientale’ Il Mulino 2008. [2] Si definisce ‘sicuro’ l’attaccamento nel quale il bambino sente di avere dalla figura di riferimento in misura adeguata protezione, senso di sicurezza, affetto. [3] Cfr. la precedente nota 16. [4] Particolarmente nota, ed importante, la sua puntualizzazione sulla necessità per la madre di proporsi di essere soltanto ‘abbastanza buona’, tenendosi in questo modo lontana dalle idealizzazioni irraggiungibili, frustranti e alla fine colpevolizzanti sia di parte del ‘senso comune’, sia di parte della pubblicistica corrente. [5] Ciò è confermato dal fatto che a volte a luoghi magari degradati sotto il profilo della ‘fisicità’ dell’ambiente risultano, nonostante questo, fonte di inaspettato benessere per le persone che li abitano, proprio in forza del ‘ritorno di socialità’ che essi vi possono sperimentare, e che fa di quei contesti non soli dei ‘luoghi’ ma degli ‘ambienti’. [6] L’espressione si riferisce al ‘ciclo di vita’ degli individui, e la sua adozione implica l’assunzione di una prospettiva ‘differenziale’ nella analisi dei problemi e nella progettazione delle strategie per affrontarli, in relazione alla diversità delle fasi della esistenza delle persone (secondo quello che si definisce anche approccio ‘life span’). [7] In modo suggestivo, G. Bachelard definisce la topofilìa come identificazione ‘del valore umano degli spazi di possesso, degli spazi difesi contro forze avverse, degli spazi amati’. Un concetto diverso ma in qualche modo affine è quello di ‘existential insideness’ di E.C. Relph: lo stato d’animo di colui che si sente perfettamente integrato in un luogo e rappresentato da esso, così che il luogo viene percepito come attraente, amabile, desiderabile, rassicurante. [8] Naturalmente, non è nell’economia né nella natura di questo mio breve contributo entrare nel dettaglio della tematica delle emozioni, per riferirsi alla quale occorrerebbe richiamare una bibliografia di particolare ampiezza: nondimeno, ritengo questa parte del contributo della psicologia ambientale particolarmente ‘comprensibile’ anche ai non specialisti, ed anche particolarmente interessante ai fini di una possibile chiave di lettura della riflessione ‘autobiografica’ che ho proposto nella prima parte del testo, e che riprenderò alla fine. [9] Una delle implicazioni rilevanti riguarda l’importanza della chiarezza della ‘identità’ di un ambiente ai fini della sua attrattività. Naturalmente l’identità ha un aspetto per così dire oggettivo (è nella mia storia), uno soggettivo (è nel mio progetto, è quella che voglio per me), e allo stesso tempo uno relazionale (è quella che gli altri mi riconoscono). [10] Ed anche quando si tratti delle stesse persone, le valutazioni potranno risultare anche sensibilmente diverse in fasi diverse del loro lifecycle. [11] L’assunto di base di tale teoria è che una moderata discrepanza solleciti il sistema nervoso autonomo ed agisca come dispositivo di mobilitazione e di attivazione, mentre una eccessiva somiglianza o all’opposto una totale discrepanza producano entrambe, se pure per motivi opposti, una reazione negativa e di rifiuto. Un modello analogo è quello di T.W.A. Whitfield, secondo cui più un ambiente è ‘tipico’ (nel senso di simile al prototipo che le persone hanno interiorizzato a seguito della loro esperienza), e più è probabile che susciti un’alta valutazione di preferenza. [12] Quando l’ho incontrata nei testi di psicologia ambientale, questo secondo tipo di attenzione mi ha fatto tornare alla mente ‘l’attenzione fluttuante’ che dovrebbe caratterizzare l’atteggiamento dello psicoanalista nelle teorizzazioni di quella specifica pratica professionale. Tornando a Ostuni, alla Valle d'Itria e al Salento, e alla esperienza personale Questa breve incursione nel territorio della psicologia ambientale (per indicare la quale, come si può osservare, sto utilizzando una metafora ambientale: ho scritto infatti di ‘incursione in un territorio’; e questo spiega meglio di qualsiasi argomentazione la pervasività degli ‘schemi ambientali’ e del linguaggio ad essi associato nel determinare il modo in cui percepiamo il mondo[1]) aveva lo scopo di verificare se e in che misura il processo di trasformazione che negli ultimi dieci anni ha avuto luogo in me, e nel mio rapporto con Ostuni ed il Salento, costituisca un evento del tutto particolare ed idiosincratico, comprensibile solo alla luce della assoluta soggettività dello ‘sguardo’ che ciascuno di noi rappresenta; oppure possa essere ricondotto a leggi, regole o comunque dinamiche processuali tipiche, che caratterizzano le persone e (come si dice a volte con una espressione che decisamente non amo) le loro ‘modalità di funzionamento’. Credo che ciascuno possa rileggere, alla luce delle pur poche categorie interpretative proposte dalla psicologia ambientale che ho sinteticamente richiamato nella seconda parte del mio contributo, la propria personale esperienza di rapporto con i luoghi e gli ambienti (in questo caso con il meraviglioso territorio a cui si riferisce questo volume) e verificare ‘per sé’ se si sente in qualche modo ‘compreso e rappresentato’ dal linguaggio della ricerca scientifica, o se eventualmente resti ancora, per quanto lo riguarda, qualcosa di essenziale che resta inespresso, che ‘eccede’ la possibilità di quel linguaggio di esprimerlo. Per quanto mi riguarda, l’esercizio riflessivo in cui mi sono impegnato mi ha innanzitutto confermato che nella ‘buona psicologia’ possiamo trovare interessanti ed euristici strumenti per analizzare ed interpretare la realtà (in questo caso, la realtà costituita dal nostro rapporto con un luogo/ambiente) e perciò stesso strumenti utili per intervenire a modificare e migliorare tale realtà. Per limitarci ad un solo esempio, riflettere sul modello di S. Kaplan (quello che distingue quattro tipi di condizioni che dovrebbero essere soddisfatte per dare luogo alla valutazione affettiva positiva: coerenza, comprensibilità, leggibilità, mistero) può risultare di grande interesse ed anche di grande supporto ‘operativo’ per tutti coloro che se pure con diversa prospettiva abbiano a che fare con il problema di creare luoghi/ambienti (abitazioni, certo, ma anche villaggi e città, insediamenti più ampi con il loro paesaggio, ma anche territori, e intere comunità, ed altro ancora) in grado di generare benessere per le persone, oppure di migliorare la propria attrattività, di stimolare il desiderio di tornare o di abitare, ed il piacere di farlo. Ma queste considerazioni hanno a che fare con un criterio di pragmaticità e di strumentalità (rispondono alla domanda ‘a che cosa può servire ragionare in questo modo’) che è estraneo a questo volume e a questo mio contributo. Ciò che mi premeva è stato fatto: e devo riconoscere, al termine di questa incursione, che alcuni dei concetti e dei modelli proposti risuonano in me con particolare forza, suscitando quello che amo definire ‘effetto di verità’ (quando di fronte ad un enunciato noi ritroviamo pienamente rappresentato qualcosa della nostra concreta esperienza personale). Ad esempio trovo interessante il concetto di attaccamento (e quello connesso di attaccamento sicuro), e la sua relativizzazione alle diverse fasi del lifecycle delle persone, ed in particolare a quelle di maggiore vulnerabilità e dipendenza oggettiva e soggettivamente percepita; i concetti di schema ambientale, di affective appraisal e di coerenza cognitiva, di restorativeness (ma potremmo aggiungere altri concetti propri del linguaggio della psicologia ambientale, come ad esempio quello di place identity, mediante il quale la letteratura scientifica ha cercato di ‘dare un nome’ alla relazione che si viene a creare, per ciascuno di noi, tra la identità ed i luoghi di cui abbiamo esperienza nella nostra vita): si tratta di costrutti in ciascuno dei quali ho ritrovato qualcosa della mia esperienza personale di rapporto con quella parte di Puglia che ha preso progressivamente in me il posto che ‘nella mente e nel cuore’ era stato conquistato dalle Cicladi. Quando oggi sosto nel silenzio sulla veranda della piccola casa bianca che alla fine di questo lungo percorso di ‘addomesticamento’ ho deciso di costruire e di abitare, e contemplo il mare in lontananza, e la distesa di ulivi che porta ad esso, solo punteggiata ogni tanto dal bianco abbagliante di qualche trullo o lamia che svetta con discrezione sul verde argentato degli ulivi e sui muretti a secco, nei giorni in cui il cielo è di un azzurro intenso ‘da far male’, oppure nella stagione dei mandorli fioriti e del tappeto di fiori gialli sotto gli ulivi, ebbene nello stesso momento, ‘sento presenti’ nella mia mente le persone del luogo con le quali ho costruito nel tempo rapporti di fraternità e di amicizia; e ‘so’ (perché questa è stata la mia esperienza, che si è trasformata in consapevolezza) che quando, stanco di sostare, deciderò di muovermi verso altri luoghi (la città di Ostuni, o una delle tante altre che definiscono la trama del territorio salentino; ma anche una osteria, un ‘fornello’ o una pescheria, una enoteca, o una farmacia, o qualsiasi altro luogo ‘funzionale’) troverò cordialità, accoglienza, ospitalità[2]… Non solo l’una o l’altra di queste ‘qualità’, ma tutto questo, nel suo insieme[3] (e tanto altro ancora, che sfida la capacità del linguaggio ordinario di esprimerlo compiutamente; e che richiederebbe il poeta che non sono) costituisce per me una sintesi ‘olistica’ di quel ‘ben-essere e bene-stare’ che rappresenta un obiettivo sempre più preciso anche per la disciplina della quale mi occupo (la psicologia del lavoro e delle organizzazioni). Nel mio personale ciclo di vita, questo ‘ben-essere e bene-stare’ l’ho sperimentato e lo sto sperimentando qui, nell’intreccio dei legami della mia storia personale e familiare con la storia di questi luoghi e di questa comunità sociale, ed è stato particolarmente piacevole ripercorrere il sentiero attraverso il quale si è progressivamente sviluppato quel processo ‘creazione di legami’ (tra le persone; tra le persone e le rose) che il piccolo principe apprende dalla volpe, nella indimenticabile storia di A. de Saint Exupery. Il legame è dentro di noi, e la rosa non è tale finchè non lo diventa ‘per noi’ attraverso la cura e la relazione. Per questo Ostuni oggi è la mia rosa. [1] Lo psicologo Kurt Lewin ha utilizzato la topologia quale chiave descrittiva dei processi psichici. [2] Così efficacemente simbolizzato da quell’uso diretto del ‘tu’ nella interazione anche con chi non si conosce ed indipendentemente dagli ‘statuti’ professionali che costituisce una caratteristica nell’approccio relazionale: e pensare che all’inizio da questa ‘immediatezza’ mi metteva un poco a disagio. [3] Che, ritorniamo ancora alla psicologia della gestalt, è molto più della somma di quelle singole qualità. Comments are closed.
|
PIER GIOVANNI BRESCIANIPsicologo, Fondatore di Studio Méta & associati, Professore a contratto presso Università di Urbino |