Eccoci dunque alla prima delle cinque brevi riflessioni che vorrei svolgere su management e consulenza nel tempo della crisi, che ho introdotto con il mio precedente intervento: il primo dei ‘cinque pezzi (non) facili’ di cui al titolo. Questo intervento è dedicato a quelle che ho definito dissonanze: le ‘opinioni che non condivido’ e che però ‘mi vengono in mente’, secondo la illuminante formulazione di Altan. C’è ad esempio un ‘conto che non torna’ nei casi in cui metto in campo strumenti, che secondo l’esperienza, le buone pratiche, la manualistica corrente, la teoria e il pensiero scientifico, sono appropriati, ma in cui nonostante questo devo constatare che i risultati alimentano nei diversi tipi di soggetti coinvolti insoddisfazione, demotivazione, fino a minare quella fiducia che nelle organizzazioni è un asset fondamentale (non solo tra imprese e mercato, ma dentro alle imprese tra persone e impresa, tra persone e persone). La fiducia non è fede: la fiducia si costruisce nel tempo e, come la cultura, è il risultato possibile di una storia; e in entrambi i casi si tratta di dimensioni che non si cambiano solo con qualche abile enunciazione, e comunque ‘in un attimo’, come a volte un management comprensibilmente alla ricerca di risultati pretenderebbe, magari ingannato dall’apparente squilibrio dei rapporti di potere tra sé e la consulenza. Ma se intendiamo cambiare una cultura, dobbiamo sapere che occorre avere la capacità e la forza di costruire un’altra storia: e solo alla fine di questa nuova storia, e se avremo lavorato bene, avremo contribuito a costruire un’altra cultura. Altrimenti, senza storia, staremmo evocando di una sorta di management ‘magico-simbolico’: che per mia esperienza è non di rado il colpo di teatro di una consulenza un poco spregiudicata, come nei casi in cui con un grande evento o con una grande convention o con un giornata di formazione sul tema della leadership, si lascia intendere di potere cambiare radicalmente lo stile di gestione dei dirigenti di una organizzazione. Non si dovrebbe consentire a nessuno di promettere ‘impunemente’ queste che sono autentiche sciocchezze, esche consulenziali abilmente rivolte a un management comprensibilmente alla ricerca di formule rapide e risolutive, per rimediare a guasti di storie ‘sbagliate’ (delle quali magari non porta personalmente la responsabilità). Certo, da un diverso punto di vista si potrebbe sostenere che interventi di questo tipo rappresentano comunque una forma di manutenzione emotiva, e la manutenzione emotiva è comunque importante: a volte queste iniziative (l’evento, la convention, la giornata di formazione) si programmano nella consapevolezza che non sono quello che ‘dicono di essere’ ma che intanto (almeno) ‘tengono insieme’ i dirigenti e/o i collaboratori, i quali in questo modo possono percepire che l’azienda ‘si prende cura di loro’, che tiene a loro, che è loro ‘vicina’; saturando una esigenza di appartenenza, di comunità, di condivisione (qualcuno direbbe addirittura di ‘nutrimento’), di relazione. Ma occorre fare attenzione, perché allo stesso tempo con scelte di questo tipo si rischia di minare la fiducia cui mi riferivo in precedenza come requisito cruciale e asset fondamentale di una organizzazione efficace: perché in realtà in questo modo l’azienda trasmetterebbe, implicitamente, un messaggio del tipo ‘entrambi sappiamo bene che in realtà le cose non stanno come affermiamo sul piano formale’, e che il significato vero (ciò che davvero importa) è invece altro da quello dichiarato. Ebbene, occorre fare molta attenzione, perché nel rapporto psicologico tra persone e azienda finisce che queste cose rischiano di avere risultati molto negativi, e di minare la fiducia: nella formazione, nel management, nell’azienda. Un altro elemento che ‘non torna’ (un’altra dissonanza), nella mia esperienza, è il linguaggio enfatico ed eccessivo della pubblicistica e della manualistica, come quello che da qualche tempo definisce i contorni di una vera e propria mitologia dell’entusiasmo (così come c’è una mitologia dell’eccellenza, e della competizione, nella quale occorre solo ‘vincere’: e per farlo, ‘people first’, naturalmente…). Abbiamo a che fare da tempo ormai con una retorica manageriale che riempie la pubblicistica e la manualistica, e che fa invece a pugni con la realtà quotidianamente percepibile dalle persone, ed è dissonante dal linguaggio corrente. E c’è una dissonanza forte anche tra reputazione pubblica dei modelli manageriali e consulenziali e i risultati e le performance che essi possono testimoniare. Nella introduzione al volume ‘Condividere competenze nelle organizzazioni’ (in cui vengono descritti i risultati di un intervento di formazione e consulenza che ho coordinato per le Banche di Credito Cooperativo dell’Emilia-Romagna) mi interrogavo provocatoriamente sul fatto che se oggi ‘siamo dove siamo’ (e cioè in una situazione di crisi profonda: e scrivevo prima della nuova crisi ‘da Covid-19’), delle due l’una:
Ricorre da qualche tempo una visione epica ed eroica del management (come ho già osservato, un’autentica retorica manageriale), e se si analizza la letteratura e si osservano i descrittivi delle competenze dei manager in molte aziende, si può constatare che c’è una forte sottovalutazione della complessità del rapporto tra persone e organizzazioni: che è fatto allo stesso tempo di denaro, di potere, di identità, di appartenenza (oggi si parla di cittadinanza organizzativa), di senso, di relazione, di espressione e di partecipazione. I repertori di competenza invece (gli elenchi delle competenze che dovrebbero caratterizzare un dirigente) rispondono in genere ad una logica ‘illuministica’ di sovra-saturazione. Se osserviamo il profilo del manager (ogni organizzazione si crea un proprio profilo di manager ideale, profilo la cui analiticità e formalizzazione è di solito correlata alla dimensione dell’impresa) possiamo osservare un effetto ‘super-uomo’ assolutamente poco credibile e poco realistico. L’aspetto negativo della situazione è che elenchi di questo tipo sono soggettivamente depressivi (nel senso che un dirigente ‘normale’ è portato a pensare che non potrà mai riuscire ad acquisire le competenze presenti in quel descrittivo, che sono quelle richieste dalla propria impresa), e sono allo stesso tempo organizzativamente super-egoici (è come se l’organizzazione si comportasse come un super-ego che invia al dirigente il messaggio ‘non sei adeguato’, non sei appropriato alle mie richieste; e, ciò che più conta, non riuscirai mai ad esserlo). L’organizzazione in questo caso funziona secondo un ‘codice paterno’: da genitore severo, esigente, sempre insoddisfatto, che non riconosce e non gratifica. Se da un lato questo è vero, occorre riconoscere che è anche vero, allo stesso tempo, che la definizione di questi repertori può però rappresentare l’occasione per costruire una rappresentazione condivisa del ruolo manageriale tra le persone, e tra queste e l’organizzazione. In questo senso, descrittivi di questo tipo (anche se sono allo stesso tempo da un lato riduttivi e dall’altro ‘impossibili’) possono ottenere un ‘effetto benchmark’: se l’organizzazione li costruisce bottom-up insieme ai dirigenti anziché imporli in una logica top-down; se ne fa oggetto di una riflessione collettiva e coinvolge i dirigenti in una riflessione seria con loro e con i collaboratori su questi aspetti: allora questo può diventare, come è stato affermato con una espressione che trovo particolarmente significtiva, un modo per ‘costruire socialmente l’oggetto di lavoro’. Ciò significa costruire ‘una mappa mentale condivisa’ sulla funzione e sul significato del ‘fare management’ in quella specifica organizzazione: e questo rappresenta un valore di processo più ancora che di contenuto; un valore che non è dato tanto da ciò che ci si scambia nel rapporto di conversazione, negoziazione, e co-costruzione, quanto dal fatto che si arriva a scambiarselo in quel modo, con quel tipo e quel livello di condivisione. Troppo spesso rappresentazioni, approcci, modelli, proposte della consulenza colludono con il bisogno del management di autodefinirsi in quel modo ‘gratificante’ (in analisi transazionale si utilizzerebbe a questo proposito l’espressione ‘farsi delle carezze’): il manager è gratificato dalla rappresentazione di sè che il consulente gli propone, che non di rado è quella di un manager-eroe, di un manager super-uomo. Credo invece che sia tempo di passare da una visione epico-eroica (come quella veicolata dai descrittivi in cui il manager rappresenta un ideale irraggiungibile), a una visione che io definisco etico-realistica. Credo che dobbiamo ritrovare umiltà, modestia, sobrietà. La crisi in questo paradossalmente ci potrebbe essere di aiuto: ci siamo per troppo tempo ‘drogati’ di parole, ed ora dobbiamo tornare a una parola che sia più ancorata alla realtà, ancorata a un analisi ‘concreta’ del lavoro manageriale e della sua natura. Dobbiamo passare dal mito dell’eccellenza al miracolo della normalità, nella consapevolezza che è la normalità ad essere davvero straordinaria. Ho richiamato finora alcune ‘dissonanze’ che avverto come particolarmente critiche quando rifletto su management e consulenza. Incontrarle sulla mia strada, percepirne la presenza, avvertirne il fastidio, intuirne ‘oscuramente’ le ragioni, mi ha spinto ad allargare lo sguardo, e a ricomprendere nell’analisi dimensioni e linguaggi diversi ed ulteriori. Le dissonanze ci sono anche perché le cose sono effettivamente complesse (niente è facile come sembra, nel management e nella consulenza): e allora nel prossimo intervento vorrei richiamare, se pure rapidamente, alcune dimensioni di questa complessità. Immagine di klndonnelly da flickr
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