Continuando nella elaborazione dei ‘cinque pezzi (non) facili’ per lo spartito che sto cercando di comporre, siamo arrivati al terzo passaggio, che è quello che riguarda le lezioni apprese (lessons learned). Come credo sia facile comprendere, le lezioni che ho tratto nel corso della mia esperienza e sulle quali, sul campo e ‘nel mio studio’, nel confronto fra teoria e pratica, mi è capitato di riflettere in questi anni, sono molteplici, e richiederebbero e meriterebbero una pubblicazione specifica (mi è anche venuto da pensare che potrebbe essere questo l’oggetto di una ulteriore sezione di questo mio blog, ma mi riprometto di rifletterci meglio). Per questo motivo, in funzione di questo intervento ne ho scelto una sola sulla quale focalizzarmi, perché la ritengo particolarmente significativa, e mi sembra racchiudere in sé una pluralità di altre suggestioni di apprendimento. Si tratta del rapporto fra grandi imprese e piccole imprese, ma in un senso molto particolare e contro-intuitivo: un rapporto nel quale, paradossalmente, il benchmark è costituito questa volta dalla piccola impresa. Per introdurre la riflessione, vorrei fare riferimento ad un episodio di cui sono stato personalmente testimone, ormai diversi anni fa. Nel corso di un intervento di consulenza finalizzato alla riprogettazione organizzativa di un sistema provinciale di servizi per il lavoro, colui che era stato fino per molti anni responsabile di una linea di servizi nel principale dei tre Centri per l’impiego, e che era da qualche tempo stato ‘promosso’ all’incarico di responsabile delle risorse umane a livello provinciale (e quindi per tutti i Centri per l’impiego di quella provincia), al ritorno da uno degli incontri con gli operatori dei Centri nei quali era solito accompagnarmi nella fase di presentazione e discussione preliminare del progetto, mi disse una cosa che non ho dimenticato, perché allora mi parve (e tuttora mi pare) molto significativa. La frase che pronunciò, con l’espressione pensosa (gli occhi rivolti leggermente verso l’alto) tanto cara alle modellizzazioni della programmazione neuro-linguistica, fu la seguente: ‘Oggi ho imparato un sacco di cose interessanti. In effetti, da quando sono diventato responsabile delle risorse umane a livello provinciale, non incontro più le persone, come avveniva invece quando lavoravo nel mio Centro…’. In una sintesi molto efficace, la frase ci restituisce, con la forza e la immediatezza del vissuto esperienziale, un elemento cruciale che nelle asettiche argomentazioni della letteratura manageriale si stenta ad individuare e a circoscrivere: la criticità del rapporto tra specializzazione dei ruoli, delle funzioni e delle metodologie di gestione e sviluppo delle risorse umane da un lato, e dimensione relazionale, di inclusione, di condivisione e di appartenenza dall’altro lato. La frase del mio interlocutore di allora spiega meglio di qualsiasi trattato la deriva che tutti tocchiamo con mano nelle organizzazioni, quando cerchiamo (come tutti cerchiamo, ne sono certo) di superare le aporie che nel tempo abbiamo visto, sperimentato, criticato occupandoci di gestione e sviluppo del personale, di formazione, di career counseling, di risorse umane, di valutazione delle prestazioni e del lavoro: la deriva per la quale più formalizziamo (e cioè scriviamo, de-scriviamo, pre-scriviamo) e più sembra che in realtà ci allontaniamo dal cuore (la metafora è particolarmente pertinente) delle relazioni organizzative; più definiamo e strutturiamo, e più sembra che anziché dotare le persone di strumenti utili per il loro lavoro in realtà imponiamo loro sovrastrutture, intralci alla relazione ed a quei compiti (di accompagnamento, di sviluppo, di valutazione) che reciprocamente le persone hanno assegnate nei contesti di lavoro. Non è forse la stessa cosa che ci capita quando lavoriamo ‘con le competenze’, e costruiamo (come non riusciamo a non fare) schede, descrittivi, standard, repertori, osservatori? Non sta forse esattamente qui la ineluttabilità del riduzionismo al quale nessuno riesce a sottrarsi, quando cerca di coniugare l’analisi descrittiva, narrativa, ermeneutica, privata e personale di un lavoro (e ancora di più, di un soggetto-al-lavoro) con i formati e gli standard propri del discorso pubblico? Forse, anche in questo caso, vale il vecchio principio di John Naisbitt efficacemente sintetizzato nella sua formula high tech/high touch (alta tecnologia/alto contatto): forse è vero che i sistemi del personale (come quelli delle competenze) possono in effetti certo giovarsi delle nuove tecnologie (e metodologie), ma se viene meno il touch (il contatto, il rapporto personale) la deriva inevitabile rischia di essere quella della burocratizzazione e del non-senso (delle relazioni e delle esperienze). Verrebbe da dire che tecnologie, procedure, formalizzazioni sono tutti elementi dell’ordine della astrazione: rappresentano una forma di matematizzazione della relazione (penso alla gran parte delle schede di valutazione delle prestazioni), una sua riduzione a qualcosa che se anche mai servisse a gestire i rapporti dentro ad una organizzazione complessa (e questo mi sembra comunque ancora oggi da dimostrare) lo fa al prezzo di una semplificazione che nella maggior parte dei casi deprime le intelligenze, delude le attese, e alla lunga imbarbarisce i rapporti, negando ad essi l’orizzonte della speranza di una cifra di accoglienza e di riconoscimento, di comprensione, di empatia, di solidarietà, di fiducia e di impegno reciproco tra chi si trova in posizioni organizzative diverse, e per di più asimmetriche. Sotto questo profilo, le piccole imprese (ed anche le piccolissime, a volte) possono, pur senza alcun automatismo, trovarsi in una situazione di paradossale privilegio rispetto alle grandi, perché in esse:
Se questo è vero, come sono propenso a ritenere, sarebbe opportuno invertire la moda di questi anni, in base alla quale a piccole imprese ritenute, per definizione, imperfette sono stati proposti/imposti modelli di management, e di sviluppo delle risorse umane, già in via di obsolescenza nelle grandi imprese, secondo i classici canoni della colonizzazione dei Paesi in via di sviluppo da parte dei mercati saturi. E si dovrebbero invece innovare/inventare pratiche di gestione nelle grandi imprese proprio a partire dal recupero e dalla valorizzazione di quanto nella loro specificità le piccole imprese (ed anche le piccolissime) hanno maturato come esperienza: lessons learned, come si dice nella manualistica consulenziale; ma a parti invertite. A pensarci bene, è come se si trattasse di recuperare una dimensione famigliare all’interno delle organizzazioni. Ma occorre fare molta attenzione, perchè abbiamo sperimentato tutti personalmente come la famiglia possa essere nello stesso tempo il luogo felice nel quale informalità, identità, riconoscimento, appartenenza e romanzo comune riescono a coniugarsi, ma anche il luogo infelice nel quale tutto ciò diviene prigione, vincolo all’espressione e alla progettualità personale, negazione della originalità e del romanzo personale. Per questo, se volessimo sfuggire a quella che potrebbe sembrare semplicemente la scelta tra due soluzioni (il modello di gestione e sviluppo delle risorse umane della grande impresa vs quello della piccola impresa), che appaiono in realtà ciascuna problematica per la propria parte, dovremmo decidere di correre il rischio della originalità e della innovazione (che significa in fondo il rischio di vivere, e non solo sopravvivere), cercando di ibridare in modo inedito i dispositivi propri delle due realtà, e modificando radicalmente quello che appare ancora come stereotipo persistente nella cultura organizzativa del nostro Paese: quello della piccola impresa come difetto da correggere.
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