La prima suggestione riguarda la progettazione del lavoro, tema troppo spesso dimenticato, ‘chiuso’ come si trova (o come comunque viene percepito) tra prescrizioni normativo-contrattuali da un lato e determinazione tecnologico/digitale dall'altro. Il management può in realtà fare molto a tale riguardo, nonostante le apparenze. Ad esempio, può assegnare responsabilità alle persone, stimolando coinvolgimento e senso di appartenenza. E può disegnare ruoli che siano allo stesso tempo organizzativamente efficaci e ‘dotati di senso’ per chi li agisce. E ancora, può dimensionare i carichi di lavoro, limitando e contenendo l’inevitabile stress, e progettare ruoli che siano per quanto possibile ‘sostenibili’ (fisicamente, cognitivamente, emotivamente), assicurando la disponibilità delle risorse necessarie. E quando ciò non sia possibile (in ragione di quelle ‘intoglibili antinomìe’ a cui ho dedicato uno dei contributi precedenti), deve poi fornire spazio di elaborazione, contenimento, supporto, e cornici di senso (come dirò più oltre). Nonostante l’apparente semplicità (fin quasi alla banalità), non si tratta di cose facili: ma sono tutte cose di cui sia il management che la consulenza si occupano ormai in genere residualmente. La seconda suggestione che vorrei proporre riguarda l’organizzazione. Se ciò che si cerca sempre più spesso di ottenere è ‘lavorare in rete’ (dentro e fuori l’organizzazione), occorre ricordare che le reti non nascono da sole, e che è necessario invece costruire le infrastrutture to make it happen. Si tratta quindi (come indicato con maggiore dettaglio nell'intervento con il quale ho inaugurato questo blog, che è stato dedicato specificamente questo tema) di progettare strutture, ruoli, organismi dedicati, tecnologie di informazione e comunicazione, progetti, standard, protocolli, procedure condivise. Ma soprattutto, occorre curare lo sviluppo di una cultura condivisa: risultato possibile, nel tempo, di una storia; e condizione necessaria per il suo riprodursi ed evolvere. Il miglior dispositivo di integrazione è la cultura organizzativa: valori, modi di intendere, modi di fare le cose, che siano per quanto possibile condivisi. E infine, per essere davvero coerenti con lo slogan ‘People first’, la terza suggestione che vorrei proporre al termine di questo ciclo di interventi riguarda lo sviluppo delle risorse umane (locuzione oggi sottoposta a una generalizzata critica proprio in virtù del significato che suggerirebbero le parole di cui è composta, ed alla quale assegno invece personalmente, come ho già precisato, un significato tutto ‘dalla parte delle persone’). Ciò di cui ho trattato finora richiede un nuovo patto psicologico con le persone, e richiede una nuova e diversa capacità di ascolto, accompagnamento, supporto. E ciò non in una prospettiva ortopedica (secondo la quale ci sarebbe bisogno di sostenere le persone perché esse non riescono a ‘stare in piedi da sole’), ma piuttosto in una prospettiva di accompagnamento nella crisi, e in un certo senso di condivisione: mettendosi al fianco delle persone e aiutandole a fare un pezzo di strada insieme (perché, come suggerisce con profondità il bel testo di una canzone di Ligabue, siamo naturalmente interdipendenti: ‘ho bisogno di te, che hai bisogno di me per cambiare il tuo mondo. Hai bisogno di me, che ho bisogno di te per cambiare il mio mondo’). Ma per fare questo, occorrono informazione e coinvolgimento nel cambiamento, formazione su misura, coaching, counseling e supervisione, responsabilizzazione e inclusione. E poi cittadinanza organizzativa, regole di ingaggio diverse, equità comparativa. Occorre restituire molto più feedback, dare riconoscimento (simbolico e non), offrire supporto al life-balance individuale. Occorre prendersi cura delle persone, e mostrare che ci si prende cura di loro. Infine, un’ultima osservazione. La leadership moderna in fondo, a volerne sintetizzare l’essenza, mi pare che da un lato consista in dire quello che si fa: e quindi nel ricostruire, raccontare, rappresentare, dare senso alla storia e al percorso dell’organizzazione. In tale prospettiva, un buon leader è quello che riesce a generare sensemaking, cioè a ricostruire insieme agli altri, e a raccontare, il punto in cui ci si trova, e le ragioni di questo, senza infingimenti; a costruire cioè, insieme agli altri, il senso del percorso che sta insieme facendo. Ma nello stesso tempo, oltre che dire quello che si fa, la leadership moderna richiede anche di fare quello che si dice (e cioè di testimoniare coerenza): come si dice con espressione comune, colorita ed efficace, richiede di ‘metterci la faccia’, giocarsi, assumersi responsabilità; e poi di dedicare tempo, esserci. Come nelle bellissime parole della volpe al piccolo Principe, ‘è il tempo che hai dedicato alla tua rosa che l’ha resa così bella’: che mi sembra una straordinaria metafora sull'importanza del prendersi cura delle persone nelle organizzazioni. A fronte di tutto questo, c’è bisogno di un profondo cambiamento. Watzlawick e i suoi colleghi del MRI di Paolo Alto avevano osservato già molto tempo fa che è possibile immaginare un cambiamento nel sistema (cambiamento di primo livello), e un cambiamento del sistema (cambiamento di secondo livello). Ad esempio, quando stiamo sognando possono avvenire tanti cambiamenti della situazione che ‘viviamo’ nel sogno, ma nonostante questo stiamo sempre sognando, siamo sempre ‘allo stesso livello’. Il cambiamento di livello invece consisterebbe nel ‘cambiare stato’, passando dal sonno alla veglia. Con una ormai ‘classica’ esercitazione, quando lavoriamo sul problem solving e sulla creatività nei gruppi di formazione o di consulenza, a volte chiediamo che, senza alzare la penna dalla carta, con non più di quattro segmenti i partecipanti tentino di unire nove punti, disegnati su un foglio per gruppi di tre, come a rappresentare un ideale quadrato. Per risolvere il problema, essi si accorgono solo dopo molti tentativi (e a volte solo dopo che il docente lo ha mostrato: la prima volta era capitato lo stesso anche lui, in genere) che occorre uscire dalla ‘gabbia mentale’ dei nove punti che le persone si costruiscono inconsapevolmente nel momento in cui lo affrontano. ‘Formulato male’ il problema (problem setting), esso viene interpretato male; ed è questo il motivo per cui non si riesce a risolvere (problem solving). Perché la soluzione, in questo caso, si può trovare solo uscendo dal frame: se non si cambiano le premesse, se non si cambia l’inquadramento, e quindi la formulazione che si è data al problema nella propria mente, non lo si risolve: e i problemi che è possibile a risolvere solo se si riesce ad operare questo passaggio sono più di quanti pensiamo. In molte delle cose di cui ci mi sono occupato in questo contributo, con riferimento alle persone nelle organizzazioni, c’è bisogno a volte di cambiamenti incrementali, e di continuare a migliorare le cose che già facciamo; ma c’è sempre più spesso bisogno anche di ridefinire il problem setting, di ridefinire il frame, la ‘mappa del problema’; e cioè c’è bisogno di un cambiamento più radicale. Credo che non resti più molto tempo, e che questa sia oggi una responsabilità di tutti, e in particolare di coloro cui più di altri compete (seppure in modo specifico e differenziato) una funzione di indirizzo, programmazione, governo, gestione, implementazione: parlo della politica, delle istituzioni, delle parti sociali, delle imprese e del loro management, della consulenza. Comments are closed.
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PIER GIOVANNI BRESCIANIPsicologo, Fondatore di Studio Méta & associati, Professore a contratto presso Università di Urbino |