Il primo elemento di complessità ha a che fare con la natura stessa di questo specifico tipo di lavoro: di che natura è il lavoro manageriale? E che competenze richiede? Come e dove si diventa ‘bravi manager’? Uno studioso di questo tema particolarmente apprezzato (Henry Mintzberg, che un altro autore molto affermato come Tom Peters riconosce come ‘forse il più grande’), che ha dedicato preziosi volumi al ‘lavoro manageriale’ (analizzandolo anche mediante una interessante modalità di shadowing) già molto tempo fa aveva cercato di distinguere le competenze dell’imprenditore dalle competenze del manager e aveva osservato, non senza perplessità, che di norma l’imprenditore veniva vissuto come colui che esprime caratteristiche quali la propensione al rischio, nonché l’efficace gestione dell’incertezza, della turbolenza, del caos; colui che è in grado di ‘navigare a vista’, di seguire contemporaneamente una pluralità di linee di azione, esprimendo al contempo una forte capacità di sintesi. A fronte di ciò, Mintzberg aveva osservato che, sempre nella rappresentazione corrente, il manager sarebbe invece il soggetto tipicamente dedito alla pianificazione, alla programmazione, al controllo e quindi attento alla sequenza, all'ordine: un soggetto quindi bisognoso di certezza, propenso alla analisi piuttosto che alla sintesi (ciò, in fondo, in sintonia con i principali autori presenti nella letteratura manageriale nel corso del secolo scorso, da H. Fayol in poi). Ebbene, l’analisi empirica del lavoro manageriale da lui svolta anche con il supporto della sua metodologia di shadowing integrata da interviste ‘riflessive’ sembrerebbe invece autorizzare la visione secondo la quale è forse il contrario, o comunque è ‘anche’ il contrario : ciò che è stato attribuito alle prerogative dell’imprenditore sembra infatti caratterizzare invece in modo particolarmente specifico proprio il lavoro manageriale (e vice-versa, si potrebbe azzardare: ma non posso qui sviluppare anche questo punto ulteriore). Il secondo elemento di complessità che vorrei richiamare, consiste nel fatto che le organizzazioni sono il regno delle antinomie, come ho già osservato in alcuni miei contributi: ma che cosa significa questo, in concreto, e perché è importante? Significa che le organizzazioni devono fare i conti (e quindi il management deve fare i conti, continuamente) con esigenze di tipo diverso, opposte tra di loro, ma che nello stesso tempo esse sono chiamate in qualche misura a rispettare entrambe e quindi a rendere compatibili: e l’efficacia dell’azione manageriale sarà tanto più elevata quanto più il management sarà riuscito a trovare il miglior punto di equilibrio temporaneamente ‘sostenibile’ tra queste due diverse istanze. Ciò accade ad esempio quando le aziende hanno bisogno di appartenenza, lealtà e fedeltà, ma allo stesso tempo hanno bisogno anche di flessibilità e di rapporti di lavoro temporanei. Oppure quando hanno (come sempre più spesso avviene) bisogno di creatività e innovazione, mentre c’è una buona parte di attività che ha bisogno ancora di conformismo e di prevedibilità dei comportamenti: ed è evidentemente difficile ‘tenere insieme’ le due cose. Pensiamo alla dissonanza cognitiva che può caratterizzare la percezione dei lavoratori a fronte di richieste così reciprocamente incompatibili da parte dell’azienda. Che messaggio sta trasmettendo il management: chiede innovazione oppure conformismo? Chiede cooperazione oppure competizione? Esercita controllo oppure concede autonomia e discrezionalità? Non è così semplice rispondere, anche perché in realtà in genere propone/chiede entrambe le cose, e contemporaneamente: perché ha bisogno di entrambe. Ha bisogno di specializzazione, ma anche di polivalenza e fungibilità. Intende praticare politiche di personalizzazione e differenziazione dei trattamenti, ma per sostenerle ha bisogno anche di mostrare equità distributiva. Deve accorciare sempre più i tempi di produzione/erogazione delle prestazioni e quindi ha bisogno di velocità, ma allo stesso tempo ha bisogno anche di curare le persone, le relazioni e i processi, e quindi ha bisogno di tempo e di lentezza. Ha bisogno che le persone lavorino con intensità e continuità, ma ha sempre più bisogno anche che le stesse persone continuino ad imparare, perché il lavoro è sempre più tutt'uno con l’apprendimento. Che fare allora, se queste sono antinomie ineludibili del lavoro manageriale? Si conferma che niente è facile come sembra, come avevo osservato nel primo contributo della serie. E si conferma ancora una volta che trovare situazionalmente il punto di equilibrio (per definizione contingente e temporaneo) tra i poli opposti di queste antinomie costituisce forse la più preziosa delle competenze manageriali. Un terzo elemento di complessità è l’incertezza. Per svolgere qualche considerazione su questo punto, vorrei prendere spunto dalla metafora proposta dal sociologo Zygmunt Bauman a proposito del cambiamento di paradigma rappresentato dalla evoluzione dal tradizionale missile balistico al moderno missile intelligente. Secondo Bauman, definire le istruzioni per il lancio di un missile nel passato, quando era chiaro il punto di partenza del missile, erano definite la distanza e la traiettoria, era chiaro l’obiettivo da colpire e questo per di più rimaneva fisso nel tempo, rappresentava un compito sostanzialmente diverso e molto meno complesso e più ‘facile’ rispetto a quello attuale, che consiste invece nel definire le istruzioni da fornire in input al missile in una situazione in cui gli obiettivi sono continuamente mobili, e quindi sono definibili solo in progress e temporaneamente, e in cui per di più non di rado è possibile sceglierli ed individuarli solo quando il missile si è già alzato in volo. Se assumiamo per un attimo che quegli obiettivi siano le ‘competenze manageriali’ di cui stiamo parlando (da raggiungere tramite la formazione manageriale, l’esperienza sul campo e lo sviluppo professionale) che cosa ne consegue per chi progetta e eroga formazione, in un periodo storico come quello attuale? Come individuare i fabbisogni formativi e di sviluppo di cui tanto si parla? Come i percorsi della formazione possono tenere conto delle continue modificazioni in progress dell’obiettivo-target? Come attrezzare le persone ad affrontare questa variabilità (e incertezza, e temporaneità, etc.)? Come aiutare le persone ad affrontare efficacemente i continui e imprevedibili processi di cambiamento? Pur nella sua evidente schematicità, la metafora di Bauman ha sempre avuto per me una sua forte capacità evocativa, perché suggerisce molte cose per nulla scontate, e contro-intuitive: ad esempio, che gli obiettivi di competenza (ma il discorso è ancora più ampio) non sono sempre linearmente definibili in anticipo. E conseguentemente, che una parte del percorso che si intraprende (e quindi una parte del processo di formazione e sviluppo manageriale) deve essere affrontato ‘senza meta’ e deve essere invece utilizzato proprio per definire la meta: ciò significa che la formazione può, e quindi deve, divenire il luogo in cui questa ri-definizione viene elaborata. Quanto ho finora argomentato implica anche che una competenza cruciale per affrontare con successo questo percorso consiste nella capacità di analizzare in tempo reale con particolare attenzione e sensibilità i ‘segnali’ che emergono dal contesto (interno, prossimo, esterno), che è cambiato ed è in continua evoluzione, riuscendo ad attribuire loro un senso in relazione ai propri interessi e progetti, costruiti in progress. Se questo è vero, si può comprendere perché l’approccio programmatorio-pianificatorio alla ‘carriera’ formativa, professionale, lavorativa perda di efficacia, ed acquisti invece di importanza l’approccio strategico (strategic mindset), nell'ambito del quale le risorse e le occasioni rappresentano delle possibilità/opportunità, e risultano tanto più utili quanto più le persone ne sono consapevoli, e quanto più riescono a individuare opportunità anche inaspettate/casuali in riferimento al proprio ‘senso di sé’, e soprattutto a coglierle effettivamente (di qui l’intrigante ossimoro planned happenstance, che corrisponde a ciò che potremmo definire ‘casualità programmata’). Queste considerazioni possono riferirsi non solo agli individui (ai manager, in questo caso) e ai loro percorsi professionali e di vita, ma anche alle aziende: si pensi al tramonto del paradigma della pianificazione, che già Mintzberg aveva anni fa messo in crisi ‘dall’interno’ del pensiero manageriale, con il suo fondamentale contributo su ‘rise and fall of strategic planning’. Se quello della incertezza è dunque il terzo elemento di complessità che caratterizza il lavoro manageriale, il quarto elemento di complessità che vorrei proporre alla attenzione è rappresentato dalla crucialità di un tipo di competenza che propongo di definire capacità negativa (termine proposto da Giovan Francesco Lanzara, che si richiama al poeta John Keats), e cioè da ciò che potremmo definire come la capacità di gestire ‘il lato oscuro e tacito dell’organizzazione’. Nonostante l’ampiezza ed il dettaglio dei tanti repertori di competenze manageriali che ho anche richiamato nei contributi precedenti, paradossalmente non vi ritroviamo alcuni tipi di risorse che ad una analisi meno formale e superficiale risultano invece particolarmente preziose per riuscire a ‘sostenere’ con efficacia le sfide dell’agire professionale e manageriale del nostro tempo. Come mi è capitato di osservare, è come se l’essenziale fosse davvero ‘invisibile agli occhi’ (secondo la bella espressione di De Saint Exupery ne ‘Il piccolo Principe’) e sfuggisse alla minuziosa analisi degli esperti che costruiscono faticosamente le dettagliate check-list di competenze delle quali possiamo oggi disporre. Ciò che di norma ‘resta fuori’ dai tanti repertori/elenchi è ad esempio, e senza alcuna pretesa di esaustività, dell’ordine della capacità di gestire emozioni come l’ansia (quando non la vera e propria angoscia), la frustrazione e la depressione: che costituiscono, invece, esperienze che è possibile per chiunque (e tanto più per un manager) trovarsi a dovere affrontare. O dell’ordine della capacità di sopportare lo stress, ma anche di sopportare ed affrontare l’incertezza e l’in-decisione che sempre più spesso caratterizzano sia lo scenario prossimo (il proprio ruolo, l’azienda, il territorio) sia quello remoto (il settore, il mercato del lavoro, il mercato tout court) con il quale le persone si devono oggi confrontare. O dell’ordine di quel particolare tipo di ‘qualità’ che nel più recente dibattito tecnico-specialistico viene definita ormai in modo fin troppo disinvolto ‘resilienza’: la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, e quindi in senso lato alle avversità, e di riorganizzare positivamente la propria vita, in questo caso personale-professionale, dinanzi alle difficoltà; nonché la capacità di ricostruirsi, restando sensibili alle opportunità positive che il contesto offre. Ma anche dell’ordine della capacità di affrontare quelle autentiche frontiere del caos che stanno diventando (sono già diventate) le organizzazioni, nonostante l’introduzione di procedure di qualità e la standardizzazione dei processi (o forse anche a causa di un certo modo di intenderle). O ancora dell’ordine della capacità di sopportare (‘contenere’ ed ‘elaborare’, si direbbe meglio secondo un approccio psicoanalitico) le tante antinomie che caratterizzano l’ambiente di lavoro (alle quali ho accennato in precedenza) e le richieste che questo esprime alle persone, e rispetto alle quali è sempre più necessario trovare un difficile punto di equilibrio: ad esempio l’antinomia tra cooperazione e competizione, e quella tra autonomia/intraprendenza e conformismo/controllo… Ebbene, questo tipo di dimensioni non lo troviamo quasi mai nei descrittivi di competenze manageriale, anche se sono ciò che, come sappiamo, ‘fa la differenza’, e rappresenta the dark side of the moon, il lato nascosto della luna. Eppure i dispositivi formali di selezione, di valutazione delle prestazioni-performance e del potenziale ancora troppo raramente ‘parlano’ in modo esplicito di queste cose, relegandole tutt’al più nell’informalità delle conversazioni off-records tra consulenti e HRM, ai margini delle procedure formali: e questo ha contribuito nel tempo a togliere credibilità a quegli stessi dispositivi, facendoli interpretare come riti ormai ‘stanchi’, che non giustificano più il loro impegno di tempo e il loro costo, perché tanto ‘le cose che contano davvero’ stanno da un’altra parte. Ed ecco allora un’ulteriore ragione per il cambiamento necessario: dal momento che ormai tutte queste cose le abbiamo imparate e ne siamo consapevoli, dobbiamo sottrarle al ‘sommerso’ e riportarle in emersione. Non c’è più tempo per raccontarci storie improbabili, solo perché magari i sistemi e i dispositivi di cui disponiamo (per descrivere il lavoro, per valutare le prestazioni, per valutare le competenze) ‘sono fatti così’. È ora di cambiare. Immagine di Kasper Rasmussen da Unsplash
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PIER GIOVANNI BRESCIANIPsicologo, Fondatore di Studio Méta & associati, Professore a contratto presso Università di Urbino |