L'intervento che segue è stato pubblicato (con il titolo ‘Dare sostenibilità all’accompagnamento al lavoro’), nella newsletter della Associazione Nuovi Lavori, nell’ambito di un numero monografico dedicato al rapporto tra giovani e lavoro, che contiene molti contributi interessanti, tra i quali uno del ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi. La newsletter completa è consultabile al seguente indirizzo: http://www.nuovi-lavori.it/index.php/home-newsletter Un breve richiamo preliminare
Con il termine accompagnamento si tende a connotare in modo sempre più omogeneo, pur nella diversità dei contesti territoriali, settoriali e degli orientamenti politico-istituzionali, il tipo di funzione che si ritiene che i sistemi di istruzione e formazione, quelli socio-sanitari, e quelli del lavoro e dell’occupazione (e quindi i loro operatori) siano chiamati a svolgere a supporto dei destinatari (cittadini, clienti/utenti, a seconda degli approcci), allo scopo di perseguire efficacemente la propria mission istituzionale ed i propri obiettivi professionali. È appena il caso di osservare che l’emergere ed il consolidarsi di una funzione di accompagnamento (qualificato come tale nei SPI; qualificato di norma invece come tutorato nel sistema di istruzione e formazione) a fianco e/o in luogo di quella di consulenza, esprime in modo visibile il cambiamento di paradigma che ha interessato le politiche formative, sociali e del lavoro da oltre dieci anni a questa parte: passando da una ‘pretesa’ informativo-consulenziale (in coerenza con la quale si assume che l’operatore ‘ne sappia sempre di più’ del proprio interlocutore, tanto da potergli fornire dati e consigli), ad una più sobria e realistica proposta di ‘affiancamento’, in coerenza con la quale invece l’operatore si pone l’obiettivo di ‘aiutare l’individuo ad aiutarsi’[1]. La funzione di accompagnamento ‘intensivo’: cenni ai risultati di una ricerca in ambito europeo Negli ultimi anni il rinnovato interesse sullo sviluppo, anche nel nostro Paese, di un sistema di SPI in grado di affrontare con successo le difficili sfide del tempo, ha dato impulso ad un nuovo interesse per l’esperienza degli altri Paesi (a livello europeo e non solo) che prima di noi e meglio di noi (quantomeno, a livello di sistema) hanno affrontato il tema del passaggio dai tradizionali uffici pubblici di collocamento ad un moderno sistema misto (pubblico/privato) di soggetti e strutture che si sono venute sempre più caratterizzando come lifelong transitional agency, secondo il dettato dell’Unione Europea. Il dato interessante che emerge in maniera concorde nei diversi casi analizzati da una recente indagine ANPAL[2] è quello rappresentato dalla assoluta strategicità della funzione di accompagnamento ‘intensivo’ (a seconda dei contesti definita anche case-management, tutorato, consulenza, coaching, supervisione, etc) e quindi del ruolo e delle competenze degli operatori chiamati a svolgerla, ai fini di un’efficace implementazione di quella individualizzazione dei servizi che costituisce un obiettivo concordemente dichiarato come ineludibile per l’efficace adempimento della mission dei SPI. In altre parole, l’accompagnamento costituisce una infrastruttura essenziale per il perseguimento di quell’obiettivo di sviluppo dell’occupabilità (e ove possibile dell’occupazione) che tutte le policy, in qualsiasi Paese, pongono in capo al sistema pubblico di SPI (to make it happen), anche laddove (oramai la generalità dei casi) a tale perseguimento siano chiamati a concorrere soggetti e agenzie (del lavoro e formative) del privato e del privato-sociale, in una logica che si configura in genere come logica di quasi-mercato. L’archetipo di riferimento di queste diverse denominazioni (e in parte, di configurazione di ruolo) è costituito dal case management, definito come ‘un approccio alla gestione di situazione complesse che mira ad offrire soluzione individualizzate e coordinate nei casi in cui sono necessari interventi multidisciplinari’ in particolare nell’ambito del settore socio-sanitario. Il riferimento è quindi ad un approccio personalizzato ed olistico all’inclusione socio-lavorativa, mediante la presa in carico dei bisogni di diversa natura che possono caratterizzare individui nelle diverse fasi del proprio ciclo di vita e nei diversi momenti di transizione ad esso connessi. Alcune antinomie per la gestione strategica di politiche attive del lavoro e servizi per l’impiego Anche la ricognizione delle migliori pratiche internazionali conferma un insieme di antinomie che sembrano accompagnare oramai da molto tempo la riflessione di coloro che sono impegnati nella innovazione delle Politiche attive del lavoro e dei Servizi per l’impiego dei diversi Paesi. Le antinomie costituiscono un oggetto molto particolare: rappresentano infatti due esigenze e/o due principi di riferimento contrapposti, e contestualmente entrambi in qualche modo legittimi, ma rispetto ai quali non è possibile ‘semplicemente’ scegliere/adottare uno dei due; che si tratta invece di coniugare, identificando ogni volta il temporaneo ‘punto di equilibrio’ tra uno e l’altro, in una determinata fase storica e in quel determinato contesto. Occupabilità vs occupazione Se in passato il ‘collocamento al lavoro’ (e quindi l’occupazione, qualunque essa fosse) costituiva l’obiettivo dichiarato delle politiche attive del lavoro e dei servizi pubblici (per quanto in una logica formale, amministrativa e distributiva), è oramai da alcuni decenni che sia la politica europea sia gli strumenti di programmazione ad essa correlati (es. fondi strutturali) hanno adottato il criterio della occupabilità quale criterio di riferimento e quale finalità precipua dei servizi. Puntare sull’occupabilità significa darsi come obiettivo quello di consolidare, sviluppare e potenziare le risorse di varia natura (competenze, esperienze, relazioni, servizi, etc.) che si suppongono in grado di aumentare la probabilità per gli individui di un positivo inserimento al lavoro. Negli ultimi tempi vi sono diversi esempi di programmi e strategie (es. work first) che sembrano suggerire in qualche modo un ripensamento critico a questo riguardo, quantomeno in riferimento ad alcuni soggetti/target specifici. Inserimento sociale vs inserimento occupazionale Anche in questo caso il dibattito e le pratiche sembrano caratterizzate da una sorta di andamento ricorsivo. Negli anni ‘80, sulla base delle sollecitazioni offerte in questo senso in particolare da B. Schwartz, una enfasi peculiare è stata data ad una sorta di propedeuticità dell’inserimento sociale rispetto all’inserimento occupazionale (si pensi alla esperienza delle ‘mission locale’). A tale enfasi è succeduto un lungo periodo nel quale particolare attenzione è stata invece dedicata a favorire in qualsiasi forma l’inserimento degli individui nei contesti di lavoro (stage, tirocini, work experience, etc, fino ai bad jobs), inserimento considerato in questo caso invece, all’opposto, propedeutico all’inserimento sociale e al riconoscimento di un ruolo personale, nella famiglia e nella comunità locale. Sembrano coesistere tuttora posizioni diverse al riguardo: ad esempio tra chi considera la socializzazione come fattore propedeutico alla professionalizzazione, e come suo antecedente necessario, e chi all’opposto considera invece l’acquisizione di un set pur minimo di competenze (per quanto magari ‘di base’) come antecedente ineludibile nell’inserimento sociale. Profilazione vs individualizzazione La profilazione, mediante programmi informatici basati su algoritmi, costituisce ormai da tempo una pratica diffusa, non solo nei SPI, introdotta al fine di consentire una classificazione rapida e con criteri costanti degli utenti/target dei servizi, allo scopo di collocarli in una tipologia di classi/aree (di norma in base al criterio della maggiore o minore distanza dal mercato del lavoro), a ciascuna delle quali viene automaticamente associato un determinato tipo di strategie di intervento (servizio o pacchetto di servizi). La istanza della individualizzazione (ormai riferimento comune nei diversi sistemi nazionali) richiama, all’opposto, l’esigenza di un contatto personale tra operatore (case manager, etc.) e utente/individuo e un tempo di relazione non necessariamente rapido, non risolto una volta per tutte, e non necessariamente omogeneo, come garantito invece da un software informatico. D’altra parte, tutte le esperienze più evolute di profilazione (si pensi al 4-Phases model tedesco e al relativo software Verbis) indicano in modo convincente quanto e come la profilazione debba semmai essere considerata una utile risorsa per l’operatore e per la sua diagnosi, purchè non vincolante[3]. Le sperimentazioni italiane di profilazione più recenti (cfr. ad esempio Agenzia del Lavoro della Provincia Autonoma di Trento) sono significativamente da un lato attente ad ‘incorporare nel software’ anche le dimensioni più soft e tacite delle competenze degli utenti dei servizi, e dall’altro ad attribuire agli operatori margini di discrezionalità nell’utilizzo delle indicazioni fornite dal software. Esperienza di lavoro vs corso di formazione Al passaggio della finalità principale dei Servizi per l’impiego dall’occupazione all’occupabilità, avvenuto ormai diverso tempo fa, ha corrisposto una particolare enfasi sulla formazione quale strumento elettivo per ‘lavorare sulle competenze’ degli individui nella direzione del loro consolidamento e sviluppo (le competenze costituiscono in effetti l’obiettivo essenziale di qualsiasi percorso formativo: si tratti di conoscenze, capacità oppure di risorse personali). Questa forte enfasi sullo strumento-formazione ha comprensibilmente generato eccessi e in qualche caso abusi, e questo non ha certo contribuito a consolidare l’immagine della formazione (in particolare quella professionale), paradossalmente proprio in una fase storica nella quale essa avrebbe avuto l’occasione di riaccreditare la propria ‘reputazione sociale’, logorata nel tempo. Il rischio (ed anzi, ormai questa appare la norma) è ora che, a fronte di ciò, si torni a pratiche nelle quali lo slogan work first venga inteso come ‘qualsiasi esperienza in qualsiasi contesto di lavoro è comunque preferibile a un percorso di formazione’. Paradossalmente, questo tipo di atteggiamento negativo nei confronti della formazione potrebbe essere anche il risultato ‘preterintenzionale’ della comprensibile enfasi degli ultimi anni sul valore del workplace learning e sul rilievo del processo di validazione e degli apprendimenti acquisiti sul lavoro. E’ quindi particolarmente importante, anche in questo caso, individuare un punto di equilibrio che da un lato consenta di rispettare la ‘buona formazione’ come requisito cruciale per un buon inserimento, e dall’altro allo stesso tempo consenta di progettare e procurare ‘buone esperienze in contesti di lavoro’ in modo tale che queste abbiano una accertata valenza formativa. Competenze trasversali vs competenze tecnico-professionali Ormai è da diverso tempo in atto un dibattito sul ruolo delle competenze trasversali (da qualche tempo spesso confuse con le soft skills, come se si trattasse di sinonimi) per favorire l’occupabilità degli individui, ma allo stesso tempo anche sul ruolo cruciale del possesso di competenze tecnico-professionali richieste dal sistema produttivo e poco diffuse, ai fini di una occupazione rapida e certa. In tale ambito, particolare enfasi hanno acquisito negli ultimi tempi il tema dell’intelligenza emotiva, quello delle competenze digitali (anche in ragione dell’impatto della pandemia COVID 19), e quello di risorse psicologiche particolari, come la resilienza e la mindfulness, etc. È evidente come si tratti, anche in questo caso, di indentificare un punto di equilibrio tra istanze che, così formulate, risultano entrambe ragionevoli e legittime (al di là di qualche eccesso di enfasi su competenze trasversali e soft skills, che appaiono non di rado troppo ‘disincarnate’, sganciate da qualsiasi riferimento a processi e pratiche di lavoro reali)[4]. Reti di soggetti-strutture vs one-stop shop Seppure in modo non necessariamente univoco nel tempo, la tendenza dei sistemi nazionali in Europa sembra in gran parte indirizzata vero il modello dell’one-stop shop, e cioè nella compresenza in un'unica struttura e in un'unica sede di diversi tipi di funzioni (politiche attive e politiche passive, patto di servizio e controllo della condizionalità, etc.). Al di là di considerazioni di efficienza e funzionalità, tale scelta ha il suo fondamento anche nella qualitativamente migliore esperienza di accesso al servizio che essa consentirebbe di sperimentare all’utente (la letteratura sul service management sottolinea come la percezione della qualità dell’accesso costituisca uno dei fattori salienti della qualità globalmente percepita dall’utente). L’alternativa praticata e praticabile a tale soluzione funzionale e strutturale è quella del coordinamento (autonomo o incentivato) di diversi tipi di soggetti anche privati, in genere da parte del soggetto pubblico che svolge la funzione di regia della programmazione del sistema. Anche in questo caso, diverse sono le possibili soluzioni intermedie, tra l’estremo della fusione in un’unica struttura (in genere pubblica) da un lato e l’estremo opposto della semplice ‘reciproca informazione’ dall’altro lato: quindi diverse e contestuali possono essere le soluzioni al riguardo. Per navigare in queste antinomie, e passare dalle enunciazioni alle pratiche sul campo (dalla policy alla implementazione) occorre ‘sporcarsi le mani’ con la vischiosità dei processi organizzativi, procedurali, amministrativi, operativi. Ma per vincere la sfida, occorre costruire infrastrutture che abbiano la ‘cifra’ che il tempo della pandemia ci ha mostrato come cruciale per sopravvivere: e cioè che siano allo stesso tempo lean, smart, sostenibili, ‘ecologiche’. Se smetteremo di non credere noi per primi in noi stessi, e se sapremo ascoltarci e riconoscerci reciprocamente, potremo finalmente valorizzare la intelligenza, la competenza e la passione che questo Paese, pur stremato, mostra ogni giorno di essere in grado di sapere esprimere[5]. Si può fare. Note: Le considerazioni contenute in questo testo costituiscono la rielaborazione di parte del contributo dell’autore a una indagine dell’Università Cattolica per la Regione Piemonte. [1] Secondo l’approccio e con la modalità che un autore con E.H. Schein ha formalizzato nel suo testo ‘Le forme dell’aiuto. Come costruire e sostenere relazioni efficaci’, Raffaello Cortina, 2010. [2] Cfr. ANPAL ‘Il case management nei servizi pubblici per l’impiego: i casi si studio di alcuni Paesi dell’UE’, Ottobre 2019. [3] Per una ricognizione più ampia al riguardo cfr. P.G. Bresciani-A. Sartori ‘Innovare i servizi per il lavoro: tra il dire e il mare…Apprendere dalle migliori pratiche internazionali’, Franco Angeli 2015 [4] Per una trattazione dei diversi sistemi di classificazione delle competenze cfr. P.G.Bresciani (a cura) Capire la competenza. Teorie, metodi, esperienze dalla analisi alla certificazione Franco Angeli 2012 [5] Per una sia pur parziale ricognizione di buone pratiche italiane, sia consentito rinviare a P.G. Bresciani-P.A. Varesi (a cura di), Servizi per l’impiego e politiche attive del lavoro. Le buone pratiche locali, risorsa per il nuovo sistema nazionale, Franco Angeli, Milano, 2017. Comments are closed.
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PIER GIOVANNI BRESCIANIPsicologo, Fondatore di Studio Méta & associati, Professore a contratto presso Università di Urbino |