Come mi è capitato di osservare, quando raccogliamo dati, mediante questionari, colloqui e interviste, per valutare la formazione, a ben guardare, i dati che emergono non sono ‘veri’: si pensi in particolare alla valutazione del gradimento/soddisfazione (emblematicamente definita sempre più spesso customer satisfaction, con una locuzione che a me pare ne limiti in modo particolarmente consistente la potenzialità euristica). I dati che emergono sono semmai, più propriamente, ‘significativi’.
E che cosa ‘significhino’ i dati emergenti dal campo (relativi alle reazioni delle persone; a ciò che esse affermano di avere appreso in esito al percorso formativo; alle conseguenze che essi ipotizzano sui loro nuovi comportamenti sul lavoro; al rilievo che essi attribuiscano a tali comportamenti in termini di impatto sulla performance organizzativa) è proprio quello che si tratta semmai di discutere, e possibilmente di condividere, nell’ambito del gruppo dei partecipanti alla formazione, e della più ampia comunità organizzativa: è questo l’essenziale ruolo dei dispositivi di valutazione autenticamente partecipativi. Ciò per evitare che l’organizzazione sia quel luogo (che troppo spesso si limita ad essere) del quale ciascuno degli attori ha in mente una rappresentazione diversa (un diverso copione; un diverso ruolo), magari reciprocamente incompatibile[1]: e per cercare invece di costruire insieme, con la faticosa (ma gratificante e fruttuosa) pratica di una conversazione organizzativa rispettosa e ‘riconoscente’[2], un senso (una visione, una rappresentazione, una intenzione, un insieme di valori e quindi una cultura) progressivamente sempre più condiviso. Condivisione di senso che è la risorsa più preziosa di cui una impresa o una pubblica amministrazione possono disporre, e a cui la letteratura tecnico-specialistica ha attribuito nel tempo denominazioni diverse, tutte fortemente evocative (ad esempio ‘sensemaking’[3]; oppure ‘costruzione sociale dell’oggetto di lavoro’[4]). Certo, molte sono le condizioni in grado di influenzare l’efficace impatto organizzativo di un intervento formativo. Ma pur essendo personalmente, e da tempo, particolarmente attento a quel filone di pensiero organizzativo e di pratiche manageriali e consulenziali che va sotto il nome di ‘service management’[5], continuo a ritenere (non solo in ragione dei miei riferimenti teorico-scientifici, ma anche alla luce delle mie esperienze sul campo) che nessun valore sia più alto dell’attenzione verso una costruzione di senso comune (per quanto ovviamente, comprensibilmente, e fortunatamente, mai perseguibile in modo totale) e della sua progressiva e faticosa costruzione nel tempo. Costruzione progressiva nel tempo di un orizzonte di senso comune in cui inscrivere i comportamenti individuali, di gruppo, di organizzazione (e quindi, a posteriori, ‘scrittura’ di una storia che possa essere ricostruita e raccontata): in fondo, è questa l’essenza di una leadership moderna, che intenda essere all’altezza dei problemi che lo scenario propone come sfida al management delle organizzazioni per il futuro prossimo[6]. [1] Come a volte succede, sono le parole di un cantautore (Vasco Rossi, in questo caso) ad esprimere con immediatezza ed efficacia il concetto che sto cercando di richiamare con proposizioni forse troppo involute: concetto che questa volta si riferisce a quella che ‘in natura’ (e cioè prima di un eventuale intervento intenzionalmente volto a modificarla) è la situazione tipica di ogni gruppo organizzativo: quando i suoi membri sono ancora ‘ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, ognuno in fondo perso dietro ai fatti suoi’ (cfr. ‘Una vita spericolata’) [2] E’ stato in particolare Giuseppe Varchetta nel tempo, in numerosi suoi contributi, a focalizzare l’attenzione sul rilievo della dimensione del ‘riconoscimento’ in ambito organizzativo [3] Si deve in particolare a K.Weick la più compiuta teorizzazione di questo costrutto, in Sensemaking. Senso e significato nell’organizzazione Raffaello Cortina, 1997 [4] L’espressione è di F.Olivetti Manoukian, in Stato dei servizi Il Mulino, 1988 [5] Cfr. la sintesi dei ‘classici’ (R.Normann; C.Gronroos; K.Albrecht; P.Eglier; E.Langeard; A.Parasuraman; S.Capranico; etc.) contenuta in P.G.Bresciani Il management dei servizi Sinform, 1999 [6] Ho trattato più ampiamente di questo aspetto in P.G.Bresciani Oltre la crisi. Ripensare management, sviluppo delle persone e formazione nelle organizzazioni, introduzione a P.G.Bresciani ‘Risorse umane’ nell’organizzazione. Giovani e donne nelle Banche di Credito Cooperativo Franco Angeli, 2015 Comments are closed.
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PIER GIOVANNI BRESCIANIPsicologo, Fondatore di Studio Méta & associati, Professore a contratto presso Università di Urbino |