'LA' COMPETENZA O 'LE' COMPETENZE? RIFLESSIONI PROFETICHE SU UN NUOVO CAMBIAMENTO DI PARADIGMA9/12/2021
Competenza, expertise, competenza esperta (ne esisterebbe dunque una non esperta?): sono questi i termini con i quali in questi anni (direi a partire dalla fine degli anni ‘80 nel contesto italiano) si è fatto riferimento, soprattutto nella letteratura tecnico-specialistica, alla particolare capacità performativa di alcune persone nel proprio dominio professionale, capacità riconosciuta socialmente (i colleghi, i superiori, altri). Le riflessioni, tuttora pienamente attuali, che pubblico di seguito, risalgono a venti anni fa.
Rilette oggi, alla luce del dibattito corrente (e alla luce del recente webinar organizzato da AIF e Officina delle competenze sul tema della valutazione delle competenze trasversali e delle soft skills), e anche al netto di un minimo auto-compiacimento (‘umano, troppo umano’…), mi sembra che effettivamente ‘liberino’ tutto il loro potenziale esplicativo, e manifestino la loro ‘profeticità’. Penso ad alcuni interventi in particolare (Bruno Pacquola, Remy Da Ros, Chiara Pacquola, Riccardo Mazzarella: ma tutti i relatori-testimoni in realtà hanno espresso, con modalità proprie, questo tipo di consapevolezza), che nel webinar hanno rappresentato, con onestà intellettuale, e con solide argomentazioni sul piano teorico-metodologico, i limiti (concordemente percepiti come ormai troppo angusti, e che nelle mie riflessioni di questi anni ho in diverse occasioni richiamato, pur riconoscendoli allo stesso tempo come limiti ‘storicamente necessari’) di una concezione statica e ‘molecolare’ della competenza. Concezione molecolare e ‘frammentata’ quale è, in ultima analisi, quella che viene proposta, con variazioni marginali, dai diversi modelli e descrittivi aziendali e istituzionali (regionali, nazionali, ed anche internazionali). Limiti che sono diventati col tempo sempre più evidenti (se solo ci si lasci interpellare dalla propria esperienza, e si accetti di sostare nell’incertezza, senza volgere frettolosamente lo sguardo altrove), e che stanno orientando progressivamente coloro che sono chiamati a maneggiare questi ‘oggetti’ verso la comprensione e l’affermazione di quel costrutto di competenza (al singolare) al quale propriamente mi riferivo nel mio contributo di allora. Contributo in cui proponevo una concezione di competenza intesa come processo dinamico mediante il quale un soggetto seleziona, attiva e mobilita progressivamente i diversi tipi di risorse (che a questo punto possiamo finalmente tutti concordare che sarebbe solo confusivo continuare a denominare competenze, al plurale, conformemente al suggerimento di Bertrand Russell per ciò che riguarda il rapporto tra ‘tipi logici’) che egli ritiene opportune e adeguate per rispondere con efficacia alle richieste della situazione e del contesto, per come le interpreta. Per inciso, e per quanto possa apparire paradossale (data la denominazione che ha poi assunto nel dibattito pubblico), questa concezione unitaria e ‘molare’ della competenza era già implicita nel modello che è diventato noto, nel dibattito italiano, come ‘modello ISFOL sulle competenze trasversali’ (alla cui elaborazione e sperimentazione ho contribuito fin dai primi anni ’90, insieme a Guido Sarchielli, ai colleghi di Studio Méta & associati, a Gabriella Di Francesco e al suo gruppo di ricercatori). Modello che, come argomento nella prefazione allo straordinario testo di Bernard Rey (Ripensare le competenze trasversali), ha il merito storico di aver ricollocato al centro della riflessione la dinamica contestuale di attivazione del soggetto, e non semplicemente l’impossibile e inevitabilmente mai saturo catalogo delle sue competenze. Come è avvenuto in altri casi (e forse, come avviene sempre) abbiamo sperimentato nel nostro Paese quello che mi piace definire ‘effetto Cristoforo Colombo’ (cercando intenzionalmente le Indie, abbiamo invece preter-intenzionalmente scoperto l’America: un esempio emblematico di serendipità), e dobbiamo proprio a questo errare e a questo errore (cui dovremmo gratitudine, quindi) il merito di questa nuova consapevolezza che sta diventando collettiva, man mano che le persone ‘incontrano il problema’ lungo il sentiero della propria pratica professionale, istituzionale o manageriale, e che oggi indica e richiede a tutti nuove direzioni di ricerca e sperimentazione operativa. Richiesta alla quale non possiamo sottrarci, se intendiamo onorare, eticamente, ciò che abbiamo appreso tramite la nostra esperienza di questi anni. E il fatto che personalmente questo lo avessi appreso, e lo avessi posto all’attenzione del dibattito, già 20 anni fa (come testimonia il testo pubblicato nel blog), se da un lato può essere per me fonte di qualche gratificazione intellettuale, dall’altro lato non può non generare una certa preoccupazione. Tengo sempre a mente, infatti, l’acuto aforisma di Jerzy Lec, che ricorda che ‘molti che avevano preceduto il proprio tempo, hanno poi dovuto attenderlo in luoghi piuttosto scomodi’. La sempre maggiore difficoltà che ho incontrato in questi anni a trovare punti di equilibrio ‘eticamente abitabili’ tra questo tipo di consapevolezza da un lato, e dall’altro una domanda (sia istituzionale che aziendale) orientata in direzione sensibilmente (se pure comprensibilmente) diversa, ha rappresentato per me uno di questi ‘luoghi scomodi’. Forse, è finalmente arrivato il tempo opportuno (kairòs) per un nuovo cambiamento di paradigma: non per risolvere definitivamente i dilemmi dei quali stiamo trattando (questo non credo che sarà mai possibile); ma per affrontarli con idee, linguaggi e strumenti sempre più all’altezza delle questioni in gioco, e della nostra crescente comprensione della loro natura. Competenza, expertise, competenza esperta (ne esisterebbe dunque una non esperta?): sono questi i termini con i quali in questi anni (direi a partire dalla fine degli anni ‘80 nel contesto italiano) si è fatto riferimento, soprattutto nella letteratura tecnico-specialistica, alla particolare capacità performativa di alcune persone nel proprio dominio professionale, capacità riconosciuta socialmente (i colleghi, i superiori, altri). Come ho avuto in diverse occasioni modo di osservare, nell’ambito di questi studi (Ajello, Meghnagi 1998) quello di competenza è un concetto non neutro, ma fortemente connotato: la competenza è infatti sempre (per definizione, e cioè per via dello stesso modo con il quale viene riconosciuta e definita) particolare competenza, e cioè una competenza particolarmente elevata. In qualche modo, la competenza sembra potere coincidere per larga parte con ciò che nel dibattito è stato indicato negli stessi anni (un po’ più tardi, invero, nel nostro Paese) con il termine di eccellenza: come ricorda Rey (1996) ‘ciò che si chiama competenza…è un’eccellenza che si riconosce negli altri’. In questo senso, è interessante notare che si definisce competenza in realtà il risultato osservabile (sempre riconosciuto infatti come tale da altri) della prestazione di un individuo o di una sua strategia di comportamento: conseguentemente, la competenza è quella qualità che alcuni ‘giudici’ sono disposti a riconoscere come fonte di un comportamento efficace. Osservando il comportamento cui si addice l’aggettivo di competente, si inferisce infatti, tautologicamente, che esso sia causato da una qualità (che si riconosce complessa) dell’individuo in questione, qualità che viene definita molarmente competenza, per analogia con l’effetto che dovrebbe in realtà spiegare. In altre parole: si spiega un effetto (il comportamento competente) dando alla causa il suo stesso nome (la competenza); riconoscendo la ‘complessità’ del costrutto così inferito, si è tutt’al più disposti ad ammettere che questa competenza è costituita di molti elementi diversi (e cioè di sapere, ma anche di esperienza; di conoscenza, ma anche di regole d’uso della stessa; etc.). Questa riduzione-semplificazione (metafora unificante della quale abbiamo forse bisogno) in realtà si limita solo a rinviare un poco nel tempo la soluzione del problema sulla natura e le caratteristiche della competenza; la competenza è sì quella cosa che fa sì che un soggetto esprima una prestazione o una strategia di comportamento che altri soggetti sono disposti a qualificare come competenti: ma in che cosa consiste allora propriamente quella cosa? Avendo passeggiato attorno al problema senza affrontarlo, ora ce lo si ritrova di fronte, intatto. Quando poi lo si affronta, si tende a farlo mediante il ricorso alle diverse dimensioni e caratteristiche che vengono definite come costitutive della competenza: i saperi (nel senso delle conoscenze dichiarative); le regole d’uso (nel senso delle conoscenze procedurali); la memoria dell’esperienza pratica (la casistica appresa e sperimentata dal soggetto esperto); la rappresentazione della situazione-problema e la meta-conoscenza di tipi di situazioni e contesti d’uso delle conoscenze (la quale porta ad un determinato ed idiosincratico modo di operare tra vincoli e risorse esistenti, e a generarne di ulteriori); la consapevolezza relativa a quest’ultima dimensione come emblematica del proprio stile di lavoro. Negli studi sulla expertise (che corrisponde alla competenza ‘con la C maiuscola’, al singolare) è raro se non completamente assente il riferimento (che creerebbe un evidente corto-circuito logico) alle competenze (‘con la c minuscola’, al plurale): nonostante questo, per descrivere analiticamente la competenza si deve comunque fare ricorso a delle entità (le conoscenze, l’esperienza, le regole d’uso, etc.) alle quali si attribuisce la capacità di spiegare la genesi del comportamento competente (del quale si suppongono essere la causa). È interessante osservare come gli studiosi, i ricercatori ed i consulenti che si sono in questi anni confrontati con l’esigenza di trattare l’oggetto-competenza al di fuori del campo degli studi sull’expertise abbiano in genere adottato lo stesso tipo di approccio (nei casi migliori), ed abbiano definito competenze (con la c minuscola, appunto) tutte le entità alle quali si sostiene siano da correlare causalmente le prestazioni competenti. In questa prospettiva, una conoscenza dichiarativa è una competenza, una conoscenza procedurale è una competenza; ma lo è anche un atteggiamento, una motivazione, un interesse, un tratto di personalità; lo è ‘qualsiasi caratteristica intrinseca di un individuo, causalmente correlata ad una prestazione efficace o superiore’: così recita la pluricitata definizione di McClelland, ripresa da Boyatzis, e poi da Spencer-Spencer (1995), e poi da tutti gli epigoni italiani e stranieri del modello delle competenze ‘di successo’ (modello che in origine si chiama solo ‘modello delle competenze’, e questo non è senza significato). Da un lato occorre riconoscere che questa affermazione è passibile dello stesso tipo di critica che abbiamo richiamato con riferimento alla definizione di competenza ‘con la C maiuscola’: anche in questo caso, infatti, un comportamento competente viene spiegato facendo ricorso tautologicamente all’azione di entità che vengono chiamate competenze, con la sola differenza che anziché avere una sola causa (del tipo della competenza generativa di Chomsky con riferimento al linguaggio, richiamata anche da Rey per proporne una lettura critica) ne abbiamo questa volta tantissime (l’elenco potenzialmente infinito delle competenze). Dall’altro lato occorre contemporaneamente però anche riconoscere che questa affermazione, che oggi siamo propensi per un verso a criticare, è stata a suo tempo dirompente; in base ad essa, infatti, si è riconosciuto ciò che aveva il sapore del senso comune ma che non era ancora riuscito a trovare ‘le parole per dirsi’: e cioè che un comportamento efficace nel contesto di lavoro reale non necessariamente costituisce un risultato garantito dalla acquisizione dei contenuti (le conoscenze) dei quali pure (sovr)abbondano i curricoli formali della scuola, della formazione professionale o dell’università; esso viene invece favorito da un insieme variabile ed eterogeneo di fattori (le entità richiamate in precedenza), tra i quali rivestono una importanza cruciale (e crescente) le caratteristiche personali degli individui (attitudini, atteggiamenti, tratti, immagini di sé, etc.) e non tanto (o solo) le conoscenze. D’altra parte, è evidente che se le competenze esistono (e cioè se si decide di definirle come entità) e se queste sono elementi di diverso ordine, allora si pone (se non altro per problemi di efficienza e di razionalità descrittiva) un problema di aggregazione di tali elementi in ‘tipi’, e di creazione di una tipologia, e cioè di un sistema di classificazione degli elementi, e cioè delle competenze, che rispetti i necessari criteri logici. Ecco allora sorgere e svilupparsi (un po’ per naturale localismo dei linguaggi e delle esperienze, e delle comunità che li condividono; un po’ per la comprensibile tensione competitiva che si crea sul mercato dei modelli, e cioè sul mercato della consulenza, ma anche nell’arena dei soggetti istituzionali, socio-professionali e formativi, e nella stessa arena dei soggetti accademici, anch’essi sempre più coinvolti nelle dinamiche tipiche del mercato) modelli di classificazione e tipologie di competenze a volte alquanto diversi e a volte sostanzialmente simili, proposti ogni volta come nuovi, ogni volta come risolutivi, in grado di superare i limiti degli altri modelli venuti prima. Ed ecco quindi la stagione degli elenchi (repertori) di competenze, costretti dalla loro stessa natura (una tipologia ‘deve’ essere esaustiva dell’universo cui si riferisce) ad aumentare in quantità ed in qualità il dettaglio delle descrizioni, sia in orizzontale (i vari ‘tipi’, e cioè le varie classi di competenze e gli elementi che stanno dentro le classi), sia in verticale (le micro-competenze che possono essere individuate come sottostanti alle competenze identificate), in quella rincorsa del ‘catalogo universale’ di tutte le competenze la cui natura mitologica è peraltro facilmente intuibile. Naturalmente, che tutte le tipologie ed i relativi elenchi costituiscano dei sistemi di classificazione di elementi, non significa che perciò stesso tutti i sistemi si equivalgano: esistono infatti criteri di merito e criteri di metodo in base ai quali i diversi modelli presenti nel dibattito tecnico-specialistico e nelle pratiche possono (e devono) essere confrontati e valutati, ed in base ai quali possono quindi essere effettuate opzioni al riguardo da chi per mestiere di questo si debba occupare. Il primo criterio di merito è costituito dalla scelta della prospettiva di osservazione dalla quale la tipologia deriva: in base ad essa si possono ad esempio distinguere (come ho in precedenza argomentato riferendomi agli approcci work-based ed a quelli worker-based) tipologie che originano da una analisi monoculare del compito-lavoro e tipologie che originano invece da una analisi binoculare del soggetto-al-lavoro. Le prime prendono in considerazione essenzialmente le conoscenze e le capacità richieste dalla prestazione (conoscenze dichiarative e procedurali e capacità tecniche, in particolare), mentre le seconde ricomprendono nel campo di indagine da un lato le qualità personali che risultano associate alla prestazione (motivazioni, attitudini, atteggiamenti, etc.) e dall’altro le modalità (i meccanismi, i dispositivi, le procedure) attraverso le quali gli individui agiscono nelle situazioni concrete, e cioè mettono in relazione le loro risorse e qualità in relazione ad un compito-contesto specifico. Si può anzi osservare come un ulteriore criterio di distinzione sia proprio quest’ultimo, per cui le tipologie risultano in realtà di tre classi, definite in base agli elementi prevalentemente (non invece esclusivamente) contenuti in esse:
Questo criterio di distinzione è fondamentale, anche perché consente di discriminare tra modelli reificanti (termine desueto, ma in questo caso efficace) che trattano le competenze come cose (i primi due indicati, pur nella loro rilevante diversità, appartengono paradossalmente a questa stessa classe) e modelli che considerano le competenze come processi, oppure come relazioni: e dal momento che convengo con chi ricorda che ‘le competenze non sono cose’ (Dal Lago, 2000; anche se devo ammettere che non sempre nella mia pratica professionale riesco a comportarmi in modo coerente con questa affermazione) è facile comprendere quale sia il mio orientamento al riguardo. Credo anche giusto osservare che, in una prospettiva storico-evolutiva (e cioè assumendo a riferimento il ciclo di vita del problema, o meglio del tentativo di affrontarlo), le altre due tipologie costituiscono altrettante acquisizioni contingentemente rilevanti: in un certo periodo storico, ad un certo punto del dibattito, esse hanno costituito un risultato importante ed hanno nello stesso tempo segnato una svolta e consentito, quando non addirittura tracciato, i progressi ulteriori. Se quello della prospettiva di osservazione/analisi è quindi un primo criterio che consente di distinguere tra le diverse tipologie e tra i modelli, e di esprimere su di essi un giudizio di valore in funzione della propria scelta al riguardo, un secondo criterio è costituito dalla validità delle tipologie proposte, da un duplice punto di vista: sostanziale e formale. Per validità sostanziale intendo la misura in cui le classi presenti nella tipologia (e cioè i tipi di competenze che essa contiene: ad esempio conoscenze, capacità personali, abilità, risorse, competenze trasversali, qualità, competenze emotive, competenze di base, etc.) e gli elementi analiticamente contenuti nelle diverse classi (l’elenco più o meno dettagliato delle singole conoscenze, capacità, abilità, etc.) riescono effettivamente a saturare le dimensioni proprie del modello (le competenze relative al compito-contesto; piuttosto che quelle relative all’individuo; piuttosto che quelle relative alla strategia operatoria per mettere in relazione risorse individuali e compito-contesto). Sotto questo profilo, ciascuno è in grado di valutare se e in che misura le tipologie ed i modelli presenti nella pubblicistica tecnico-specialistica e praticati nella formazione, nella consulenza e nella gestione delle risorse umane in impresa siano all’altezza del compito, e di ciò che promettono. Per validità formale intendo invece la misura in cui la tipologia proposta soddisfa requisiti di logica e/o coerenza interna del linguaggio, evitando errori a volte anche grossolani, come quando non si rispettano i tipi logici (ad esempio quando, definendo le classi, se ne propone una che include anche le altre: oppure quando un elemento appartenente ad una classe compare anche in un’altra; oppure quando si mettono sullo stesso piano classi ed elementi; etc.): l’analisi comparativa di alcune delle tipologie di classificazione delle competenze presenti nelle pratiche aziendali per la valutazione delle prestazioni e del potenziale è estremamente indicativa al riguardo (Bresciani, 1996). Naturalmente, il problema della coerenza tra utilizzo del termine competenza per indicare la classe e quello di competenze per indicare gli elementi della classe stessa si pone solo per coloro che considerano la competenza come la risultante della sommatoria degli elementi (‘qualsiasi caratteristica…etc’): il problema si pone in modo completamente diverso se si considera invece la competenza come strategia di azione (come stile di azione, ho affermato una volta diverso tempo fa in modo sorprendentemente lungimirante), oppure come costrutto quasi sovrapponibile a quello di personalità (Sarchielli V., 1997). Sono consapevole (io stesso, mentre ne scrivo) della complessità delle questioni poste, e della sensazione (che è anche mia) di allontanarsi dal ‘cuore pulsante’ del problema-competenza tanto più quanto più ci si addentra in ragionamenti di questo tipo: emerge a tratti, in particolare in queste occasioni, il desiderio di ritrovare quella semplicità intuitiva nel trattare di competenza che paradossalmente sembriamo perdere proprio man mano che aumenta la nostra conoscenza ed esperienza (la nostra competenza) su questo oggetto. Questo desiderio è accentuato dalla consapevolezza che non è sulla base di questo tipo di considerazioni che in genere esperti e consulenti generano modelli e tipologie di competenze, o che le persone (formatori e insegnanti, dirigenti di imprese, dirigenti e funzionari dei sistemi della scuola e della formazione professionale, ma anche delle parti sociali) scelgono se adottare questo o quel modello e quella tipologia di classificazione: è noto infatti che diversi sono i fattori in grado di influenzare i nostri processi di decisione, e che tra questi la razionalità delle argomentazioni (intesa qui come logica pura: la razionalità olimpica cui si riferisce Simon) è soltanto uno degli elementi che entrano in gioco, e non necessariamente il più importante. Altri elementi concorrono infatti a determinare le nostre scelte; tra questi, mi pare opportuno richiamarne almeno alcuni:
Ma nonostante tutto questo, non è (più) possibile, ormai, comportarsi con una logica naive: se il nostro percorso ci ha portato fino a questo punto, non possiamo più ‘fare finta di non sapere’, e di non avere visto quello che abbiamo visto arrivando fin qui; questa consapevolezza è oggi ineludibile, e ce ne deriva l’obbligo di onorarla (che significa poi onorare noi stessi e la nostra storia personale), costi quel che costi. Certo, come ho altrove notato, alcuni possono essere tentati di scacciare la fastidiosa sensazione di impasse che deriva dall’affrontare questi aspetti del problema-competenza assumendo un atteggiamento di sufficienza (‘è una questione filosofica: pensiamo alle cose concrete’; oppure ‘si tratta di un problema teorico: badiamo alla pratica’). A fronte di questo tipo di atteggiamento una controdeduzione tipica consiste nel ricordare che ‘non c’è niente di più pratico di una buona teoria’, osservazione che fa leva sul valore euristico e funzionale della teoria (un valore per così dire estrinseco): ma si tratta ormai di una formula logorata dall’uso, e perciò poco efficace, poco sorprendente/spaesante. Vale la pena di rammentare (come sottolinea Frega, 2001) che anche la teorizzazione è intrinsecamente una pratica (è la pratica di un lavoro intellettuale), e che quando teorizziamo sulla competenza ‘facciamo pratica’ (sia nel senso che ci dedichiamo ad in un tipo particolare di azione, sia nel senso che ci applichiamo a qualcosa che ha profondissimi intrecci con altri tipi di azione nei quali siamo coinvolti, e che sono il fare formazione, il progettare interventi e percorsi, l’analizzare ruoli e bisogni, il valutare comportamenti, prestazioni, persone…). Questo specifico tipo di pratica (teorizzare sulla competenza) ha quindi il suo contesto, le sue regole, i suoi criteri di performatività, i suoi parametri di valutazione: di ciò sarebbe opportuno vi fosse maggiore consapevolezza in chi si occupa di questi temi. Occorrerebbe maggiore consapevolezza (in tutti noi, naturalmente: nella mia intenzione queste considerazioni valgono innanzitutto per me) che le nostre pratiche utilizzano la tecnologia del linguaggio (metafora già riduttiva e non particolarmente felice, a proposito) e nello stesso tempo ne sono in qualche modo informate ed intrise; e che quindi la validità interna del linguaggio stesso (valutata secondo propri criteri formali, non secondo i criteri del senso/discorso comune) costituisce un elemento di riferimento essenziale per la qualità (la sostenibilità) delle proposizioni e delle argomentazioni che veniamo costruendo. Se riuscissimo ad esprimere una tensione di questo tipo, forse potremmo evitare qualche contraddizione e qualche aporìa come quelle che una analisi un poco rigorosa dei modelli di classificazione delle competenze proposti e praticati da diversi tipi di soggetti (Regioni, Organismi di formazione, Istituti di ricerca, Società di consulenza, etc.) consente agevolmente di riscontrare (Di Francesco, 2001). Ma non si pensi, con questo, che si possa ritenere risolto il problema del quale ci stiamo occupando: non basta, anche se ha una sua cruciale importanza, l’attenzione alla coerenza formale del linguaggio che si usa quando si parla di competenza; così come non basta l’attenzione al processo di implementazione (alla cui rilevanza cruciale ho dedicato altri interventi) dei diversi modelli; o la creazione di una dimensione convenzionale nelle comunità di pratiche che lavorano sulle competenze e con le competenze (dimensione che ho da tempo proposto di riconoscere come essenziale ai fini del buon funzionamento dei modelli); così come non basta l’introduzione anche nel nostro ordinamento di un sistema istituzionale di norme che definiscono e certificano le competenze. Niente di tutto questo può bastare da sé: occorre piuttosto una tensione costante e ‘concorrente’ verso ciascuna di queste piste di azione; occorre che permangano insieme, nei diversi soggetti in qualche modo coinvolti nel lavoro con le competenze, rigore, curiosità, desiderio di ascoltarsi e di intendersi, voglia di sperimentare e di trovare soluzioni, umiltà e senso di responsabilità: e che questa tensione costituisca la cifra dei comportamenti di tali soggetti, il loro stile di lavoro. Certo che, a proposito di analisi rigorosa del linguaggio, ciò che ho appena scritto è passibile, quantomeno, di una obiezione resa celebre dagli psicologi di Palo Alto, e in particolare da Watzlawick: l’obiezione secondo la quale si starebbe in questo modo proponendo una insostenibile ingiunzione paradossale del tipo ‘sii spontaneo!’ (nel loro linguaggio, gli psicologi che utilizzano l’approccio della terapia razionale-emotiva potrebbero affermare che si tratta di una pericolosa ‘doverizzazione’). Che significa infatti che occorrono qualità come curiosità, desiderio, voglia? Come è possibile che queste disposizioni si manifestino, se non per via spontanea e non coartata, e quindi non assoggettata a dovere? Il discorso non sta forse impercettibilmente scivolando, con affermazioni di questo tipo, in un fastidioso e superficiale moralismo? Devo riconoscere che il rischio è reale, ma da qualche tempo mi sembra un rischio necessario. La distanza tra etica e moralismo è in effetti alquanto sottile: ma ho sempre più l’impressione (la convinzione) che non possiamo fare altro che ‘abitare la distanza’ (Rovatti, 1994). Anche questa è un’etica, e come tale è il limite nel quale non riesco a non inscrivere (oggi) la mia pratica professionale, e la mia elaborazione teorica, che come ho già avuto modo di ricordare è anch’essa un tipo particolare di pratica: senza nessuna pretesa che tale etica sia condivisa, mi limito a testimoniarla, come contributo alla riflessione su un tema davvero inesauribile Comments are closed.
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PIER GIOVANNI BRESCIANIPsicologo, Fondatore di Studio Méta & associati, Professore a contratto presso Università di Urbino |