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Suggestioni
Tu chiamale, se vuoi, emozioni
Lucio Battisti, Mogol

DIREZIONE D’ORCHESTRA E ETICA MANAGERIALE

La prematura scomparsa di Ezio Bosso ha, comprensibilmente, contribuito alla speculare comparsa sui social e sul web di numerosi filmati, interviste, riprese, ricordi di questo personaggio straordinario.
 
Ora che il flusso delle citazioni  è rallentato, non è quindi per allinearmi alla emozione collettiva che propongo qui a mia volta un breve filmato tratto da una sua intervista ad opera di Iannaccone nell’ambito della sua trasmissione ‘I dieci comandamenti’, sollecitandovi a prenderne visione, e soprattutto ad ascoltarne attentamente le parole.
 
È invece per riconoscere il senso profondo che ho trovato in queste parole, e per la profonda suggestione che credo non possano non creare in chiunque svolge un ruolo di coordinamento e/o manageriale, in qualsiasi tipo di organizzazione (economico-produttiva, sociale, artistica, sportiva, politica, istituzionale…).
 
Il direttore che ‘si prende cura’ di coloro che suonano con lui.
 
La dimensione di ‘inclusione’ che connota qualsiasi attività collettiva.
 
Lo scopo per cui si studia e ci si esercita per ore e ore: ‘non per essere migliori, ma per migliorare. Perché quando io miglioro me stesso, anche il mio compagno suona meglio’.

E tanto altro, che il mio commento rischierebbe di impoverire.
 
Una autentica lezione di leadership, e di etica manageriale.

‘PEOPLE FIRST’ TRA TEORIA E PRATICA: UNA DISTANZA INEVITABILE?

Ritengo opportuno e corretto premettere, per scrupolo, che il video di cui state per prendere visione contiene anche alcune espressioni di una certa volgarità, per quanto da tempo ormai di uso corrente anche sui mezzi di comunicazione di massa.
 
Nonostante ciò, ho deciso di riproporlo ‘così come è’ (come faccio quando tengo conferenze o seminari o giornate di aula, sui diversi temi che emergono in filigrana da questo pur breve video) in particolare per due motivi:
 
  • Il primo motivo è di natura affettiva, ed ha che fare col fatto che il film da cui il brano è tratto fa parte del mio romanzo famigliare, e in particolare del mio rapporto con i miei figli, con i quali, fin dalla sua comparsa sul mercato, trovammo l’occasione di prenderne visione insieme (dopo che io avevo già letto il libro da cui era stato tratto), e di commentarlo su piani diversi, in sintonia con il nostro 'lessico famigliare' (come lo avrebbe chiamato N. Ginzburg).
 
  • Il secondo motivo è di natura razionale, ed ha che fare col fatto che il brano, in maniera molto efficace, rappresenta la paradossale discrasia tra enunciazioni ‘poetiche’ e pratiche di gestione ‘prosaiche’, di cui è così frequente osservare la contemporanea e schizofrenica presenza, non di rado nelle medesime imprese. Per inciso, è questo uno dei motivi per i quali utilizzo spesso la visione di questo filmato nell'ambito di interventi che trattano il tema dell’etica nelle organizzazioni, o ancor più specificatamente dell’etica nel management e nello sviluppo delle persone dell’organizzazione.
 
Che poi, anziché di parlare di un motivo di natura emotiva e di uno di natura razionale, sia forse più opportuno parlare di motivi entrambi di una diversa razionalità, è questione molto interessante che merita una specifica trattazione, alla quale penso di dedicare un prossimo intervento.
 
Stavo per dimenticare il titolo (del volume e del film): ‘Volevo solo dormirle addosso’
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PIER GIOVANNI
BRESCIANI
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ALTAN

Coloro che hanno avuto la pazienza di guardare fino al termine lo spassoso e istruttivo monologo di Ivano Marescotti sull’identità della ‘vera Romagna’, forse ricorderanno che anche lui si richiama alla straordinaria vignetta di Altan (che a sua volta sembra ne sia debitore a Flaiano), nella quale uno dei suoi stralunati personaggi, fissando il lettore come si fissa il vuoto, afferma sconsolato e rassegnato ‘mi vengono in mente opinioni che non condivido’.
Ancora una volta, la sintesi di Altan è folgorante: l’espressione coglie perfettamente il segno del sorgere di quello che R. D. Laing avrebbe chiamato divided self (io diviso), e illustra in modo illuminante l’insinuarsi di una crepa ormai inarrestabile nel castello di certezze che tutti  progressivamente ci costruiamo.
 
Nella sezione Ritorno al Futuro di questo stesso blog, nel corpo dell’intervento dal tiolo ‘cinque pezzi (non) facili’ (che tratta di management e consulenza) richiamo anche io questa espressione piena di significato, proprio per indicare quanto l’esperienza sul campo mi abbia portato a problematizzare e a mettere in discussione assunti dati troppo per scontati, che non di rado si rivelano autentici luoghi comuni: tomba del pensiero e, ciò che più ancora conta, tomba del cambiamento e dello sviluppo.
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Ascoltare ‘le opinioni che non condividiamo’ (quelle degli altri, ma soprattutto le nostre) dovrebbe rappresentare per tutti una nuova etica del pensiero, ma io ritengo ci sia qualcosa di ancora più importante: perché questo è anche l’unico modo che conosco per praticare una nuova etica dell’azione.

UN ANNO NELLA VITA
Imprese: La Salvezza non è nei Numeri
Pier Luigi Celli, 2006 - Sellerio Editore

Ci sono lacune manageriali più pericolose - ai fini della conduzione di impresa - della stessa carenza di competenze specifiche in alcuni settori (mettiamo, finanza o marketing o altro). E sono quelle che minano direttamente le capacità relazionali con colleghi e dipendenti, presentandosi come difficoltà di rapporto che, sotto l'alibi del carattere, giustificano rigidità, distanza, fino a scorrettezze e sostanziale disprezzo.
La formazione alla carriera manageriale è spesso frutto di casualità e di approssimazione sui terreni che circondano l'asse dello specialismo su cui si è cresciuti. Fa premio, talora, una esagerata rincorsa all'avanzamento e al successo che perde per strada pezzi importanti di tessuto connettivo e di obiettivi intermedi, sulla spinta di un individualismo potenzialmente egemonico e, di conseguenza, scarsamente attento ai problemi e alle aspirazioni degli altri.
La conseguenza di questa accelerazione verticale senza spazi intermedi di sedimentazione, è almeno duplice:

1. Ha scarso valore, e ancora più scarso rilievo pratico, tutto ciò che sa di cultura, intesa spesso come inutile perdita di tempo ma, ancor peggio, come un bagaglio irrilevante ai fini degli scopi chiarissimi che si hanno in testa.

2. È di impaccio tutto ciò che obbliga a percorsi laterali, configurandosi come esigenza di dare spazio a contatti e relazioni che non sono strettamente finalizzati, ancora una volta, ai propri piani di carriera.

Si perdono cioè, pressoché integralmente, sopravvivendo al massimo solo in una prospettiva funzionale, sia le dimensioni larghe del saper guardare il mondo da punti di vista molteplici, ancorati a saperi diversi, ricchi proprio per la loro contaminazione, sia la dimensione sociale delle regole di convivenza, su base valoriale e non semplicemente utilitaristica, che alimentano una forma di capitale indispensabile per la tenuta delle imprese nel tempo.
Il perché si sia determinato uno schema così arido di sviluppo è parecchio complesso da definire, ma certamente alcuni elementi hanno contribuito fortemente a influenzarlo.
In primo luogo il prevalere delle logiche finanziarie in impresa, con l'attenzione esagerata ai temi e agli strumenti, sempre più sofisticati, di 'benessere economico', anche a prescindere dal benessere tout court dell'impresa.
'Fare i conti' ha significato la resa incondizionata alla logica miope del 'numero' a tutti i costi, e i numeri, nella loro apparente neutralità, hanno in realtà colonizzato le teste e inaridito i cuori.
La lotta col numero è una lotta solitaria che ben si concilia con carriere singolariste (monoteiste, si direbbe) e consente di ritenere come spurie altre condizioni. Figurarsi i rapporti sociali e i sentimenti, luoghi di un politeismo ambiguo, così assurdamente qualitativo.
C'è, certamente, accanto a questa preferenza ormai largamente espressa a valorizzare gli uomini che vengono dal versante finanziario, e garantiscono la sacralità dei conti, una progressiva perdita di significato della formazione più generale, quella che gira in torno alle cose nella presunzione che a capirle serva tempo e connivenza empatica.
Se la specialità più di moda abilita a progredire rapidamente perché perdere tempo, ancora una volta, con fantasie opinabili o percorsi ondivaghi così poco appetibili?
È così che le aziende hanno a poco a poco ridotto l'investimento emotivo nella filosofia, prima che nei programmi, della formazione; magari aumentando la dotazione delle risorse per le nuove forme di addestramento che consentono di controllare gli spazi intermedi delle professioni e delle loro famiglie, a cui vengono sottratti (per pudore) i talenti da trattare su percorsi accelerati, fittiziamente finalizzati.
Il terzo perché, alla base di questa deriva tecnologica e asettica del management di vertice, è fornito dalle politiche consulenziali praticate negli ultimi decenni, specie dalle grandi imprese.
Con un ribaltamento abbastanza spettacolare delle logiche di committenza, alla fine sono le società di consulenza a selezionare il management più adatto ad utilizzarle, finendo con l'imporre la propria cultura standardizzata, ma internazionalmente compatibile, e fornendo all'impresa propri partner in posizione di vertice o negli immediati dintorni.
Il risultato è che le culture originali delle imprese si sono tutte sterilizzate a favore di un unico grande pensiero procedurale, il problema degli uomini di vertici (leader manageriali) è stato risolto alla radice, delegato (o assunto in proprio) nell'alveo di alcuni grandi gruppi di consulenza internazionale, e infine, le grandi imprese, in questo paese, si sono drasticamente ridotte fino quasi a scomparire.
È chiaro che la pratica, confermata a macchia d'olio, di accesso alle posizioni apicali delle carriere manageriali attraverso percorsi esterni all'impresa, rende superflua ogni gavetta relazionale, abitua a considerare ininfluenti le potenzialità e le aspirazioni degli uomini che hanno percorsi tutti interni, affida, soprattutto, alla potenza carismatica degli strumenti la soluzione di ogni problema di strategia. Insomma, perché perdere tempo in macchinosi programmi di sviluppo degli itinerari di carriera quando c'è ormai chi le carriere le preconfeziona come by-product del proprio mestiere consulenziale?
Poi, quando qualche dubbio sopravviene, e nonostante gli investimenti in consulenze i business prendano a soffrire, ci si ricorda che le regole che ci hanno formato sono 'eminentemente etiche' (la cultura è anglosassone, non a caso) e dunque la nostra responsabilità sociale è salva, indipendentemente dalla spersonalizzazione dei rapporti e dal divario tra ciò che si crede ufficialmente e quello che quotidianamente si pratica.
Chi l'ha detto che bisogna metterci della passione per lavorare bene o, Dio non voglia, derogare alle procedure per qualche inciampo causato dai rapporti umani troppo stretti?
Meglio, dunque, affermare i principi e poi regolarsi come se questi ci proteggessero comunque. Una buona comunicazione farà il resto. 

(Pier Luigi Celli, tratto dal capitolo Imprese: la salvezza non è nei numeri di Un Anno nella Vita)

LA PAURA DEL LUPO

Temo che il nostro modo di pensare la vita sia troppo anestetico, e questa parola mi cade dalla penna molto a proposito, perché indica due cose: fuga dal dolore e fuga dalla bellezza.
Secondo me questo è un problema politico, anzi il problema politico. Noi siamo nati dentro l’Europa (quest’idea diplomatico-letteraria tenuta assieme dal latino, dalla retorica e dalla crudeltà reciproca) e moriremo che l’Europa non ci sarà più.
Il guaio non è una civiltà che va in cenere, ma il fatto che rischiamo di non saperne fondare un’altra. Abbiamo troppa paura del dolore e troppa fiducia nel buon senso. Troppe stampelle.
Una vera civiltà dovrebbe essere il luogo dove tutto ciò che è più debole viene accolto e protetto. Noi dovremmo essere venuti al mondo per dividere il pane con i più poveri, far giocare i bambini e dare una cuccia agli animali.
La nostra vita non passerebbe invano se avessimo un’idea poetica della politica. E invece, non lasciamo mai che la poesia sfondi gli steccati dentro i quali abbiamo circoscritto arbitrariamente la nostra vita.
Questo accade a causa della nostra invincibile paura delle cose estreme, che ci induce a pensare i gesti di una giornata come eventi che è meglio tenere separati fra loro. La musica è lontana dal lavoro e il lavoro è lontano dall’amore che a sua volta è lontano dalla letteratura. E tutto ciò che di bello e di grande ci cade sulla testa marcisce perché, semplicemente, non trova il suo luogo.
Ci crediamo furbi, perché spingiamo via le ceneri nella direzione “giusta” del vento, via da noi.
E invece, il più furbo era proprio il primo dei tre porcellini. Ricordi? Quello che costruiva la sua casa con la paglia.
Perché il lupo, in un modo o nell’altro, deve arrivare.
Si spreca una vita a immaginarselo, questo lupo, e a fare delle case solidissime.
Mentre, con la sua paglia, quel genio del primo porcellino voleva esprimere la sua semplice verità: che senza il lupo, senza la sua splendida giustizia, non vale nemmeno la pena di esistere.
Sarebbe ipocrita dire che il lupo non è così brutto come lo si dipinge. Anzi, è molto peggio.
Il lupo è la verità della vita di un uomo, e la verità della vita di un uomo sta in ciò che più teme.

(Emanuele Trevi, 
Istruzioni per l’uso del lupo)​​

ALTAN

La pandemia COVID-19 costituirà un discrimine decisivo rispetto a una molteplicità impressionante di dimensioni.

​‘Dopo’, il nostro passato ‘sarà stato’ diverso da come ce lo siamo immaginato e significato ‘prima’.

Il significato condiviso che attribuiamo alle cose, e il senso (che è invece idiosincratico e incondivisibile) che per ciascuno di noi esse assumono, avranno in questo evento e in questo periodo temporale il loro elemento di assoluta discontinuità.
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Altan, 1978 - Quipos
Questa vignetta di Altan (anche se fatico a definire in un modo così riduttivo le sue opere, almeno per il significato che viene attribuito comunemente a questo termine), già così meaningful per me dalla fine degli anni ’70 quando la incontrai per la prima volta, esprime oggi in modo sintetico ed immediato, come spesso capita con questo autore, una verità per dire la quale avremmo bisogno (almeno, io avrei bisogno) di tante più parole, e certamente meno efficaci.

Come per altre immagini ‘storiche’ di questo autore, alcune delle quali ho intenzione di condividere in alcuni dei prossimi appuntamenti, la visione stimola una associazione immediata al tempo presente.
A me ad esempio viene da pensare a quanto, dei discorsi anche recenti di parte della politica, delle parti sociali, dell’università e degli ‘esperti’, ma anche del mondo delle imprese e delle professioni, del marketing, ed anche di tutta la variegata gamma dei mezzi di comunicazione (tv, giornali), appaia oggi improvvisamente come irrimediabilmente datato: quando non addirittura irresponsabilmente vuoto, offuscato dal narcisismo, da uno smodato spirito competitivo e dall’invidia, e illuso di poter vivere di una rendita senza fine.

Nel gioco delle libere associazioni (che libere non lo sono per nulla, come sappiamo) mi viene da proseguire con una ulteriore citazione (troppo nota questa volta perché ne richiami l’autore) ‘Non chiedere per chi suona la campana. La campana suona per te’.

Per la mia parte, sto cercando di non cadere nella tentazione di non rispondere.

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Suggestioni

Brevi testi, immagini e filmati ciascuno dei quali, a suo modo, ha stimolato in me una comprensione razionale o una risonanza emotiva
(o meglio entrambre, se le emozioni sono forme iperveloci di cognizione).

IVANO MARESCOTTI - MONOLOGO

A proposito di integrazione e identità, temi affrontati nell'articolo della sezione Il Tempo Presente. 

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