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LA CAPACITÀ DI NON FARE, OVVERO L’ARTE DI ASTENERSI

14/4/2020

1 Comment

 
Diverso tempo fa, mi è capitato di mettere a tema un elemento che a me pare sempre più intrinsecamente costitutivo dell’agire competente, che ho definito ‘la capacità di non fare’, ovvero ‘l’arte di astenersi’.
Tale competenza consiste in quel particolare tipo di ‘sensibilità’ che fa sì che un individuo riesca ad intuire-avvertire tempestivamente (più ancora che a diagnosticare e prefigurare: anche se secondo molti approcci si potrebbe interpretare tale sensibilità come una sorta di ‘super-allenamento’ nella diagnosi, e quindi come un raffinatissimo automatismo procedurale) le possibili degenerazioni cui determinate iniziative condurrebbero (parole che l’individuo potrebbe dire; azioni che potrebbe intraprendere).
 
In base a tale sensibilità,  invece, l’individuo ‘agisce attivamente’ (nel senso che lo decide consapevolmente) di astenersi dal prendere iniziative (in termini di parole o di azioni): con ciò contribuendo a creare una situazione migliore (a livello personale, sociale o organizzativo) di quella che sarebbe stata ‘invece’: e quindi, in senso più ampio, contribuendo a creare ‘un mondo migliore’.
 
Se la realtà effettuale è, come credo, il risultato sempre unico (la configurazione contingente) dei jeux du possible di cui ha parlato Francois Jacob con riferimento alla biologia, allora essa è anche ogni volta il risultato delle scelte che facciamo e di quelle che non facciamo.
 
Considerare queste ultime come scelte attive al pari delle altre, sottraendole alla affrettata e superficiale attribuzione ad una incapacità/paralisi decisionale, consente di comprendere quanto ciò che succede sia sempre influenzato/bile dal nostro ‘astenerci’ almeno altrettanto quanto lo è dal nostro agire; anzi: il nostro agire è composto, insieme, del nostro intraprendere e del nostro astenerci, di ciò che facciamo e di ciò che non facciamo.
 
In questo senso, ho sempre considerato importante rivalutare l’arte di astenersi: quella particolare dote che consente ad alcuni individui, in determinate occasioni, di non fare ciò che a posteriori ‘sarebbe stato’  l’atto di inizio di un percorso degenerativo (nelle relazioni interpersonali e sociali; nelle relazioni organizzative; nelle sequenze operative di affrontamento di un compito; etc.).

​Potremo discutere poi in un secondo momento se si tratti di una qualche forma di intuito; oppure di una qualche competenza emotiva  (ma per favore, in accezione diversa da quella che a me sembra piuttosto ordinaria proposta da Daniel Goleman, la cui elaborazione, nonostante la mole e il consenso raggiunto, non mi pare francamente che mantenga ciò che la felice locuzione di ‘intelligenza emotiva’ - quasi un intenzionale ossimoro - sembrava promettere); oppure ancora di una perfetta proceduralizzazione cognitiva.
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Non a caso, questa riflessione sull’arte di astenersi (della quale gli psicanalisti sanno qualcosa; ma che è presente anche in alcune filosofie orientali) mi è stata suggerita dal richiamo al concetto di negative capability riproposto da Giovan Francesco Lanzara (che si richiama al poeta John Keats): questo potrebbe essere, in fondo, un altro sentiero per inoltrarsi in quello che ormai molto tempo fa ho definito ‘il labirinto della competenza’; oppure un’altra finestra dalla quale osservare il paesaggio in una diversa prospettiva; oppure ancora un altro linguaggio per trattare i temi oggetto di interesse in questo contributo (competenza; apprendimento; formazione).
 
Se e in che misura si possa pensare di insegnare questo tipo di arte; e se e in che misura, specularmente, essa possa essere appresa: è un interrogativo che, da solo, mi sembra potrebbe costituire un programma di sperimentazione e di ricerca allo stesso tempo intrigante, opportuno, socialmente necessario.
 
‘Vaste programme’, si potrebbe obiettare con ironia e facile disincanto, tanto più pensando ai tempi difficili che stiamo vivendo: ma forse, paradossalmente, proprio questa realtà così ‘inospitale’ potrebbe fornirci lo stimolo (altro che nudging…) ed anche il coraggio (o forse la disperazione, come succede non di rado chi decide di intraprendere un percorso di analisi) per intraprendere finalmente quei percorsi ‘divergenti’, che immersi nella nostra comfort zone non avevamo proprio visto (e questa, credo, sarebbe una responsabilità), oppure non avevamo considerato e valutato nelle sue implicazioni, pur avendola ‘distrattamente e/o pigramente’ intravista (e questa, temo, sarebbe una colpa).

Immagine di Freepik
1 Comment
Paola Sanna
15/5/2020 01:12:42 pm

Il richiamo alle filosofie orientali e l'auspicio che "l'arte di astenersi" diventi materia d'insegnamento, richiama l'attenzione al fatto che, nello studio dei testi tradizionali e nella pratica yogica sono implicitamente compresi gli insegnamenti rivolti alla non-azione e alla consapevolezza dei nostri gesti, pensieri e parole. Gli antichi saggi, si erano già accorti che il cervello umano ma più precisamente il sistema corpo-mente, funziona ripercorrendo schemi di azioni appresi dall'esperienza. Andarono oltre, per scoprire che le nostre modalità di risposta ad un certo evento spesso ricalcano l'abitudine appresa rinunciando a metterla in discussione anche quando intuitivamente capiamo che non è più funzionale allo scopo. Questo accade ad ogni livello: fisico, emotivo, e mentale.
Essi arrivarono a formulare la tesi per cui questo agire per automatismi è da considerarsi la causa della nostra sofferenza esistenziale. Cosa può interrompere, questo agire per percorsi noti e non più validi? Cosa può ridestare la nostra capacità di diventare consapevoli del nostro agire reattivo? Nella pratica di yoga, si sperimenta inizialmente dal punto di vista fisico, poi con l'intero sistema, la possibilità di ascoltare l'esistente senza intervenire con pensieri o azioni. Non si sta parlando di ebete immobilismo ma piuttosto della disponibilità a far emergere i gesti, le azioni, le parole, da un vissuto diretto che ad ogni istante mette in discussione il già-noto. Credo che quest'attitudine possa essere insegnata a partire dalla scuola. Noi insegnanti spesso entriamo in classe e nel luogo di lavoro con pacchetti di comportamenti e risposte apprese altrove, in un luogo diverso dalla realtà che abbiamo di fronte.
Paola

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