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Ritorno al Futuro
Bisogna ritornare sui passi già percorsi per ripeterli
e per tracciarvi a fianco nuovi cammini.
​

Bisogna ricominciare il viaggio.
​

Sempre.
Josè Saramago

CINQUE PEZZI (NON) FACILI - RIPENSARE MANAGEMENT E CONSULENZA OLTRE LA CRISI (1 di 7)

13/5/2020

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La prima parte del titolo di questo intervento si richiama a un film di Bob Rafelson di ormai 50 anni fa e che ho amato particolarmente (‘Cinque pezzi facili’: film intenso e drammatico, nel quale straordinaria è l’interpretazione fornita da un Jack Nicholson in stato di grazia; non a caso sia il film che l’attore hanno ricevuto a quel tempo la nomination per l’Oscar).
 
Il titolo che ho scelto intende rimandare ai prossimi cinque interventi su questo blog, che rappresentano il mio tentativo (in realtà per nulla facile) di comporli nel loro insieme in un unico spartito, per affrontare un tema che reputo particolarmente cruciale: il futuro dell’attività di management e di consulenza, nell’orizzonte della crisi.
E vorrei introdurre questa riflessione partendo dalla mia esperienza personale, e integrando il contributo teorico-scientifico con la mia testimonianza (cercando così ancora una volta di coniugare ‘discorso pubblico e discorso privato’, che è una delle tensioni che da sempre caratterizza il mio pensiero e la mia scrittura).
 
In effetti non sono soltanto uno studioso o un docente ‘accademico’: da psicologo del lavoro opero soprattutto come consulente nell’area della organizzazione e delle risorse umane (dirò più oltre come intendo questa locuzione così ambigua): quindi quando richiamo la necessità indilazionabile di ripensare radicalmente il management e la consulenza, parlo anche di me, e della mia esperienza concreta con le aziende private e con la pubblica amministrazione.
 
Nelle aule della formazione oggi le persone che incontro chiedono sempre più testimonianze piuttosto che docenza: chiedono di confrontarsi con qualcuno che abbia ‘attraversato’ esperienze, che parli loro delle cose che ha realizzato, piuttosto che delle cose che conosce: giusto o sbagliato che sia, si ritiene che molta conoscenza oggi la si possa recuperare sul web; e che il mitico knowledge management si possa ‘farselo da soli’; e per questo si preferisce incontrare persone che possano parlare della propria esperienza, più che dei propri studi.
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Vorrei testimoniare della difficoltà che anche io personalmente attraverso quando ‘maneggio’ le tecnologie della gestione e dello sviluppo delle risorse umane: le tecnologie della selezione, le tecnologie della valutazione delle prestazioni e del potenziale, della valutazione delle posizioni, della formazione, del career counseling, dell’outplacement, della ricollocazione, dell’assessment e del bilancio di competenze.
 
Credo che nel management e nella consulenza occorra ricominciare a parlare il linguaggio della verità (come occorre in economia e in politica), con onestà e con umiltà, limitando le preoccupazioni di posizionamento sul mercato e di reputazione, per riuscire a raccontarsi ‘quello che succede davvero’.

A volte questo può avvenire proprio nei luoghi della formazione: in molte organizzazioni mi è capitato di osservare che la formazione non è più, solo, il luogo in cui si riproducono conoscenze e competenze operative, ma anche (e a volte, soprattutto) un luogo di riappropriazione collettiva del senso di quello che sta avvenendo; il luogo in cui insieme (management e collaboratori) si cerca di costruirsi una ragione di ciò che sta accadendo, e si trova uno spazio per dirsi quelle cose, che nelle urgenze e nella confusione della quotidianità del lavoro, non si riesce altrimenti a trovare il tempo e il modo di dirsi.
 
In questi casi, in maniera un po’ impropria, se si vuole, ma opportuna, la formazione diviene quel luogo, quello spazio, quel tempo: e svolge una funzione più che mai cruciale.
 
Credo che questo Paese abbia un grande bisogno di ritrovare questi luoghi di scambio e di costruzione di un senso collettivo. Lo ha politica, lo hanno le istituzioni, lo hanno le aziende.
 
Oggi, nello scenario della crisi, la tentazione del management è di confidare sul fatto che le persone si attiveranno perché saranno costrette a farlo, e che quindi non vale la pena di (pre)occuparsi di costruire una nuova relazione con loro.
 
Credo che invece una responsabilità cruciale del manager sia proprio quella di costruire le condizioni perché possa realizzarsi non tanto knowledge management (di cui il web è oggi la metafora più suggestiva) quanto piuttosto knowing mangement: che significa occuparsi di come fare in modo perché qualcuno intraprenda e decida di ‘farsene qualcosa’ di tutto questo knowledge che ormai c’è a disposizione (nelle imprese, nelle reti e sul web), e decida di usarlo imprenditivamente.
 
Si investono tante risorse per il knowledge management che c’è, mentre bisognerebbe dedicare un po’ più di tempo e di attenzione al knowing management che manca: e cioè a far sì che le persone, dentro e fuori le organizzazioni, si attivino, e siano motivate a ricercare e ad utilizzare le tante conoscenze e tecniche disponibili; e trovino ‘senso’ nel farlo, per sé e per la propria organizzazione.
 
A questo proposito, mi piace richiamare una suggestiva definizione di competenza, che condivido, secondo la quale la competenza non è tanto quello che si sa e si sa fare, ma è piuttosto riuscire a farsene qualcosa di quello che si sa e si sa fare (aggiungo: ‘quando serve e dove serve’).
 
Dopo queste brevi considerazioni introduttive, vorrei anticipare per titoli i temi che saranno oggetto dei contributi di cui questo costituisce in qualche modo la premessa, e che vorrei sviluppare in cinque passaggi.
 
Il titolo che darò al primo passaggio è dissonanze. Con questo termine intende significare che ci sono ‘conti che non tornano’ nei discorsi correnti su management e consulenza. Il protagonista di una illuminante e nota vignetta di Altan afferma ‘mi vengono in mente opinioni che non condivido’: ebbene, a volte anche a me vengono in mente opinioni che non condivido, cioè considerazioni che mi sembrano dissonanti rispetto al senso comune corrente, e vorrei proporre alla riflessione alcune di queste ‘opinioni’.
 
Il secondo passaggio è quello che definirò con il termine sintetico (anche se certo, ormai abusato) di complessità. In realtà, nel fare management (ma anche nel fare consulenza) ‘niente è facile come sembra’. Certo occorre trovare soluzioni alla complessità, ma le troveremo quanto più ne saremo consapevoli e non la negheremo (come troppo spesso avviene in nome degli slogan, in nome delle battute folgoranti, o in nome delle mode consulenziali del momento).
 
Il terzo passaggio allude a quella che è appunto una tipica moda consulenziale del momento, ed è efficacemente sintetizzato nella locuzione people first (che significa: le persone al primo posto, ovvero le persone prima di tutto). Da molto tempo ormai si fa un gran parlare di ‘risorse umane’, ma questa locuzione è allo stesso tempo ambigua e rischiosa, e in parte impropria. In una delle possibili etimologie, il termine risorsa deriva infatti dal francese ressortir, che deriva dal latino antico re-ex-sortire che vuol dire ‘trarre fuori dai problemi’. In questo senso, dunque, potremmo affermare che, etimologicamente, il termine risorsa non allude a qualche tipo di strumentalità delle persone (come invece avviene per le risorse finanziarie, la risorse tecnologiche, le risorse informative, etc.: il che sarebbe riduttivo ed anche eticamente critico), ma allude, piuttosto, al fatto che le persone possono oggi ‘trarre fuori dai problemi’ le aziende, e che quindi la vera speranza di soluzione (di scire dalla crisi) sono le persone. Ma se facciamo nostra per davvero, e in senso pieno, la locuzione people first, questo che implicazioni ha?
 
Il quarto passaggio allude al fatto che in questa faticosa ricerca di un sentiero per affrontare la crisi non partiamo dal nulla: abbiamo imparato (tutti) diverse cose nel tempo, facendo management e facendo consulenza (lessons learned, come titolerò sinteticamente questo intervento) e dobbiamo recuperarne il senso (il compianto attore Massimo Troisi aveva titolato un suo celebre film ‘ricomincio da tre’: proprio per significare che non necessariamente dobbiamo sempre ripartire da zero, e che possiamo ‘portarci dietro’, anche quando sia poco, ciò che buono abbiamo nel tempo consolidato).
 
Questa considerazione evoca il quinto passaggio, che è quello che definirò il cambiamento necessario: locuzione che richiama la tematica della crucialità di passare dal problem solving al problem setting. Come sappiamo dalle metodologie per il miglioramento della qualità,  c’è un cambiamento incrementale (che significa imparare a fare un po’ meglio le cose che già si stanno facendo), e c’è il breakthrough, la rottura, il cambiamento che crea discontinuità. Allo stesso modo, possiamo osservare che ridefinire il problem setting significa cambiare il modo in cui ci si è rappresentati fino ad allora il problema, il modo in cui lo si è concepito. A volte, non riusciamo a risolvere il problema che abbiamo di fronte perché non ci rendiamo conto che ne accettiamo, implicitamente ed inconsapevolmente, alcune premesse che sono proprio quelle che ci impediscono di trovare una via di uscita.
 
Vorrei quindi dedicare qualche riflessione a ciascuno di questi cinque passaggi, a partire dal prossimo intervento.
 
A presto.
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