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Tra il prima e il dopo c'è il mentre
Lanfranco Pace

TO MAKE IT HAPPEN: LE INFRASTRUTTURE PER L'INTEGRAZIONE (4/4)

22/4/2020

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Anche se a volte può essere spontanea (in quelle occasioni nelle quali le persone volontariamente e senza obblighi - a volte addirittura nonostante le condizioni di contesto - collaborano per un obiettivo condiviso, mettendo in comune competenze, risorse, servizi, strutture, ed a volte anche clienti-utenti), non per questo l’integrazione è un processo semplice, naturale e poco costoso.
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Come ho già osservato, integrarsi significa fare la fatica di conoscere gli altri e di farsi conoscere da loro; accettarli anche in quello che hanno di diverso da noi ed anzi imparare ad apprezzarlo; autolimitare la dinamica competitiva; sopportare l’ansia di perdere i confini e l’identità; negoziare; dedicare tempo ed energia emotiva alla cura e alle relazioni; accettare l’aumento delle interazioni e delle informazioni; accettare di darsi e di condividere ulteriori procedure di lavoro e dispositivi; accettare l’interdipendenza con gli altri; imparare cose nuove (tra queste, imparare che complicarci la vita per un servizio migliore e per un risultato che ci trascende ‘vale la pena’); e alla fine di tutto questo, non potere avere la narcisistica ma gratificante soddisfazione di potere affermare che il risultato è tutto merito nostro; ma potere, in compenso, condividere con gli altri partner o le altre organizzazioni o sistemi il raggiungimento di un obiettivo che da soli non saremmo stati in grado di raggiungere.
Se l’integrazione è tutto questo, allora si capisce perché essa va supportata a diversi livelli: perché non basta evocarla perché magicamente essa si avveri; e non basta neppure promuoverla politicamente: occorre ‘infrastrutturarla’, e cioè creare le condizioni per la sua realizzazione concreta.
L’integrazione va supportata istituzionalmente: c’è bisogno di creare le condizioni a livello di sistema (regolazione normativa; assetto dei poteri e delle competenze; indirizzi; azioni di sistema) perché si possa esprimere un orientamento all’integrazione da parte dei diversi soggetti, e perché questo orientamento possa concretizzarsi in comportamenti concreti.
L’integrazione va supportata organizzativamente e metodologicamente: c’è bisogno che nelle organizzazioni che cooperano e collaborano per un fine comune siano presenti ed operanti specifici dispositivi per l’integrazione (che sono tanti e diversi): ruoli e organismi finalizzati al presidio dell’integrazione; meccanismi operativi e di funzionamento volti a questo fine; procedure e protocolli di lavoro; standard di processo e di servizio; professionalità e competenze; tecnologie (che sono sempre più spesso uno straordinario ed ancora poco valorizzato supporto al riguardo: purché non si trasformi il mezzo e in fine) e risorse (penso certo alle risorse finanziarie, ma penso anche al tempo di lavoro, che è una risorsa sempre più scarsa) coerenti con la finalità dell’integrazione e in grado di facilitarne il perseguimento; e c’è bisogno di uno stile di leadership che sostenga concretamente (con atteggiamenti, messaggi, scelte gestionali) l’approccio ‘integrato’.
Infine, l’integrazione va alimentata culturalmente: c’è bisogno di informazione ricorrente sulle motivazioni dell’integrazione, sugli obiettivi che consente di raggiungere, sulle esigenze che consente di soddisfare, sui clienti e sugli utenti che ne beneficiano; c’e bisogno di lavorare alla creazione di un linguaggio comune, anche mediante la formazione congiunta ed il lavoro insieme; c’è bisogno di assistenza e supervisione alle persone impegnate sul piano operativo, e di spazi e luoghi perché la loro esperienza abbia modo di esprimersi, confrontarsi e rielaborarsi, ponendo le premesse perché la comunità di pratiche possa riflettere su sé stessa.

Come nel caso di qualsiasi altra performance dell’organizzazione o dell’individuo, anche nel caso della ‘performance dell’integrazione’ per ottenere un risultato positivo occorrono diversi tipi di risorse:

  • occorrono competenze adeguate per fare la propria parte, sia che si tratti di prodotti che di servizi (le persone devono sapere e saper fare)
 
  • ma occorre anche che queste competenze siano sostenute da una motivazione, e da un orientamento, una disposizione, una tensione verso l’integrazione come modalità di funzionamento desiderabile per i risultati che consente di ottenere (le persone devono anche voler fare)
 
  • e infine occorre che le persone (quando sanno, sanno fare e vogliono fare) si trovino ad operare in contesti (organizzativi ed istituzionali) empowering e cioè abilitanti, nei quali ci siano le condizioni (di diverso ordine, come ho più volte ricordato) che consentono che queste competenze e disposizioni si possano esprimere (il che significa quindi che le persone devono anche poter fare)
‘Alla fine della filiera’, l’integrazione riesce quando le persone che erogano i servizi o lavorano sui prodotti agiscono comportamenti coerenti con questo fine. E che questo accada, come abbiamo osservato, è ‘necessariamente’ funzione della loro cultura (rappresentazioni, valori, etc.) e delle loro competenze: ma è appena il caso di ricordare quanto potere, e quindi quanta responsabilità, abbiano il management istituzionale e quello organizzativo nella creazione delle condizioni nelle quali tutto ciò avviene; e per questa via, quanto essi possano anche influenzare le motivazioni e gli orientamenti individuali, nonché la cultura e le competenze delle persone.
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L’integrazione è un problema multidimensionale e chiama in causa tutti, quindi: operatori, dirigenti, istituzioni pubbliche; nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può ribaltare soltanto sull’altro le difficoltà o i risultati inadeguati.
 
Si può affermare, con una frase che mi sembra esprimere bene un’etica della responsabilità, che l’integrazione è un problema di tutti, e di ciascuno.
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