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Tra il prima e il dopo c'è il mentre
Lanfranco Pace

L’INTEGRAZIONE: RAGIONI E DIFFICOLTÀ (2/4)

8/4/2020

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L’esigenza di integrazione in qualsiasi campo (sociale; organizzativo-aziendale; formativo-educativo; tecnologico; psicologico ed intra-individuale) si è progressivamente affermata specularmente alla evoluzione del processo di differenziazione e di specializzazione tra le parti di un sistema (individuo, organizzazione, sistema istituzionale).
L’integrazione è diventata tanto più necessaria quanto più è aumentata la complessità del sistema, il numero delle parti e dei soggetti, la quantità e la varietà dei compiti e delle prestazioni.
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L’integrazione è nello stesso tempo un antidoto (contro la frammentazione, la dispersione, la ‘liquefazione’) e un elisir (per un migliore stato di salute del sistema ed un suo più efficace funzionamento).
 
Da un lato la differenziazione e la specializzazione sono connaturate al processo evolutivo delle organizzazioni e dei sistemi (così come delle persone: si pensi alla importanza che gli psicoanalisti assegnano al processo di integrazione delle diverse parti del sé, e ai suoi esiti).
 
Dall'altro, e contemporaneamente, lo stesso processo evolutivo richiede che venga in qualche modo ricomposto ciò che è stato suddiviso e frammentato in base a criteri tecnico-operativi, organizzativo-funzionali, o amministrativo-burocratici.
 
E governare sistemi ed organizzazioni oggi richiede a tutti (rappresentanti delle istituzioni; dirigenti di organizzazioni e imprese; operatori) una capacità inedita di ‘abitare’ questa che è una vera e propria antinomia, rispetto alla quale non è possibile scegliere uno dei poli del dilemma, ma è indispensabile ‘navigare’ tra queste due polarità trovando le forme di integrazione possibile e sostenibile.
 
Questo perché l’integrazione non è una dimensione binaria e discreta (on/off; sì/no; tutto/niente), ma è invece continua, e si può concretizzare in tante diverse modalità:
 
  • da una modalità minima, nella quale ciascuno opera in sostanziale autonomia, conosce gli altri e sa cosa fanno, e ricorre ad essi quando si presentano problemi coerenti con la loro specializzazione, o mission distintiva
 
  • a una modalità massima, nella quale c’è una strategia comune ed un programma concordato, e nella quale sono definiti i ruoli reciproci, i dispositivi, le risorse e le modalità di interazione finalizzate agli obiettivi condivisi; o addirittura, al limite, c’è vera e propria fusione all'interno della stessa forma istituzionale e della stessa ragione sociale (‘ut unum sint’)
 
Tra questi due estremi, si collocano tante soluzioni intermedie: dalla informale e volontaria collaborazione delle persone, alla elaborazione e gestione di progetti comuni, o addirittura di procedure e dispositivi comuni, o di risorse (sistemi informativi e documentazione; hardware e software; persone e professionalità; spazi e ambienti); o ancora, alla definizione e all'utilizzo di standard di riferimento comuni (di output/servizio, di processo o di performance); o alla definizione di ruoli e/o organismi di coordinamento; o di protocolli o accordi di collaborazione; o di vere e proprie forme di istituzionalizzazione dell’integrazione (nella forma di associazioni, coordinamenti, consorzi, o addirittura fusioni).
 
Per inciso, vale la pena di osservare che così come esistono modi assolutamente dis-integrati di ‘abitare’ strutture pur ricomprese nello stesso corpo istituzionale o organizzativo, così per converso esistono modi assolutamente integrati di ‘abitare’ contesti nei quali nessuno dei potenziali dispositivi di supporto all'integrazione stessa è operante.
 
Ciò conferma che nel ‘farsi’ dell’integrazione entrano in gioco fattori hard (le regole, i dispositivi, le tecnologie, i meccanismi operativi), ma anche fattori soft (le competenze, le culture e le rappresentazioni, i modi di intendere, le motivazioni e le intenzioni, etc.).
 
E se è certo che nessuna ‘infrastruttura’ dell’integrazione sarà mai utilizzata effettivamente, se le persone non ne comprenderanno e condivideranno la finalità e il senso, è altrettanto certo che nessun generoso comportamento individuale volontario, se non accompagnato da misure organizzative e di sistema, sarà in grado di durare nel tempo, e di raggiungere una massa critica significativa.
 
Anche per questo motivo, il problema di individuare quale sia il modello di integrazione ‘migliore in assoluto’ è un problema mal posto: la teoria e l’esperienza suggeriscono che non esiste un solo modello ottimale di integrazione (totale/istituzionale vs minimale/volontario), ma esistono piuttosto modelli adatti, pertinenti, locali, la cui configurazione sarà inevitabilmente influenzata da un insieme di variabili, tra le quali: i tipi di soggetti in campo e le loro strategie/politiche; lo stato dei sistemi e dei soggetti (risorse; assetti; mercati; etc.); le storie e le esperienze maturate; le competenze disponibili e concretamente mobilitabili; il ciclo di sviluppo dei soggetti e del loro sistema di relazioni; etc.

Non deve sorprendere che queste diverse configurazioni, questi mix di dispositivi e strumenti così diversi (e che rappresentano i diversi modelli di integrazione praticati concretamente) possano ciascuno nel proprio contesto e in un determinato momento storico ugualmente funzionare, e risultare efficaci: ciò avviene proprio perché, anziché essere astrattamente pensati a-priori in base al grado di raffinatezza delle teorie di riferimento, o al livello di politically-correttness che esse paiono esprimere, tali dispositivi e  strumenti aderiscono ad una storia, ne tengono conto, si pongono in relazione con i soggetti reali e le culture che si sono nel tempo sviluppate in quello specifico ambiente.
 
Certo, ragionando in questo modo si potrebbe correre il rischio di essere ‘più realisti del re’, e di tenere conto delle storie in misura così consistente da non promuovere il cambiamento e l’innovazione necessari; ma questo è il rischio quotidiano dell’azione di chi svolge funzioni di governo e di management: funzioni che sono sempre destinate ad abitare la contraddizione, a navigare tra le antinomie, trovando ogni volta un difficilissimo punto di equilibrio tra di esse; funzioni che non a caso Freud ha annoverato tra le poche ‘impossibili’, e nello stesso tempo ineludibili.
 
Può essere utile richiamare una distinzione di cui non sempre sembra esservi consapevolezza: nell'accezione corrente, con il termine di integrazione si indicano nello stesso tempo sia il processo mediante il quale soggetti/entità diverse collaborano, si coordinano, cooperano (le tante e diverse attività mediante le quali si cerca di integrarsi; il cercare di essere integrati), sia il prodotto di tale attività (l’essere integrati; l’esserci riusciti).
 
Nel dibattito pubblico, in particolare socio-istituzionale e organizzativo-manageriale, al termine di integrazione si associano in genere, significati positivi quali: connessione, comunicazione, collaborazione, cooperazione, coordinamento, complementarietà, coesione, coerenza, interdipendenza funzionale, partnership, concordia.
​

Questo significa, come è stato osservato, che l’idea di integrazione suggerisce concetti quali: legame, forma unitaria, completamento, forza adesiva, accordo (emotivo e progettuale), ordine, sinergia.
 
Per converso, all'opposto di integrazione troviamo dimensioni quali: confusione, compromesso, collusione, calcolo, costrizione, conflitto.
 
Quello di integrazione si presenta come concetto completamente positivo, quindi: e questa sua caratteristica lo rende particolarmente attrattivo, al di là delle appartenenze politico-istituzionali, ideologiche, professionali; in questo senso, il concetto ha un certo livello di ambiguità, che in parte è all'origine del suo successo.
 
Evocando l’esigenza di integrazione, tutti avvertono infatti di evocare il bene, uno stato ideale, un modo di essere e di funzionare assolutamente desiderabile, del quale si vedono essenzialmente i vantaggi (per il cliente-utente finale; per il cittadino; e quindi per l’azienda e l’istituzione, sia sotto il profilo etico che sotto quello del consenso e dei risultati di mercato).
 
Per questa sua self-evidence, l’istanza della integrazione risulta quindi inappellabile, e ad essa non ci si può sottrarre: e ciò spesso crea quel curioso corto-circuito per il quale, avendola definita come obiettivo desiderabile (di un sistema; di una organizzazione; di un gruppo professionale) si tende a pensare che l’intendence suivrà, e che in qualche modo, essendo stata evocata, magicamente per ciò stesso l’integrazione avverrà (senza porsi il problema dei processi di implementazione: e cioè delle infrastrutture, dei meccanismi organizzativi e dei comportamenti concreti che soli sono in grado di trasformare il principio e la parola d’ordine in pratica quotidiana e funzionamento effettivo, to make it happen).
 
Ma prima credo importante richiamare alcune questioni-chiave relative all’integrazione: lo farò nel prossimo intervento.
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