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Il Tempo Presente
Tra il prima e il dopo c'è il mentre
Lanfranco Pace

DONNE, LAVORO, POLITICA: IL DILEMMA DELLA PARTECIPAZIONE

9/3/2021

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La recente rilettura dei risultati, ancora assolutamente attuali, di una ricerca sulla partecipazione delle donne al lavoro e alla politica, che ho coordinato alcuni anni or sono [1], mi sollecita a riproporre all’attenzione ciò che in quel contesto avevo definito, in modo evocativo ed un poco provocatorio, l’illusione della conciliazione.
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In esito al percorso di ricerca e alla riflessione che esso aveva originato, infatti, sostenevo che la riflessione su questa parola-chiave, e sul principio che essa sottende, mi sembra ruotare attorno ad un assunto implicito (che non di rado viene poi anche esplicitato), che può essere così formulato: le donne non accedono a tutta una serie di opportunità (di formazione e sviluppo professionale, di carriera lavorativa, di responsabilità politica ed istituzionale, ecc.) a causa di un insieme di ostacoli ed impedimenti che hanno a che fare con la difficoltà a conciliare le risorse necessarie per l’accesso a tali opportunità (tempi, spostamenti, stili di vita, costi, etc.) con i vincoli oggettivi e materiali dei quali, almeno nell’ambito del nostro sistema socio-economico e culturale, esse non possono non tenere conto (la cura dei figli e della famiglia; la struttura della organizzazione del lavoro; la struttura dei trasporti e dei servizi sociali; ecc.).
 
Conseguentemente, si sostiene, se si intende favorire ‘pari opportunità’ di accesso a tali possibilità per le donne rispetto agli uomini, una delle condizioni essenziali consiste nell’intervenire per migliorare la compatibilità tra vincoli e risorse, e cioè la possibilità di conciliare lavoro, partecipazione politica, responsabilità familiare, etc.: ed ecco allora l’utilità di strumenti e dispositivi quali i voucher di conciliazione e di servizio, i contributi e gli incentivi economici, ma anche i servizi sociali diffusi, i trasporti a misura di donna e di vita familiare, ecc.
 
Tutto bene, dunque? La questione della conciliazione tra impegno richiesto dalla formazione, dal lavoro e dalla partecipazione politica (ai vari livelli di cui si parla nella indagine; e con particolare attenzione ai due livelli che in essa vengono definiti come partecipazione istituzionale e partecipazione sociale) e impegni relativi alla sfera personale (familiare, professionale, di vita in senso lato) verrebbe in qualche modo ‘risolta’ dalla prospettiva di un sistema di risorse e di servizi ricco, articolato, modulabile e differenziabile per tipologie di donne, per cui ‘a ciascuna il suo’, magari in una moderna prospettiva di nuovo welfare?
 
Ebbene, a me pare che le cose siano un poco più complicate, la soluzione alquanto più complessa, e la riflessione meno consolatoria di quanto non possa apparire.   
 
Se non si intende incorrere in una generosa illusione (anticamera inevitabile della futura disillusione), credo occorra guardare a questo elemento con maggiore realismo.
 
Per ciascuno (donne e uomini) si pone infatti il problema di ‘fare i conti’ con la difficile relazione tra il tempo per definizione limitato della propria esistenza, da un lato, e dall’altro il tempo richiesto dalla partecipazione politica, ed in tale ambito tempo richiesto dai diversi livelli di partecipazione ai quali la ricerca si riferisce.
 
Questa relazione è per definizione costosa: la partecipazione alla formazione, al lavoro, alla politica (così come altre forme di impegno individuale) si paga al prezzo ineludibile di qualche forma di rinuncia alla dimensione personale/familiare (anche se certamente, quando è agita consapevolmente ed attivamente, essa è in grado di offrire ritorni importanti, anche sul piano esistenziale e personale).
 
Ciò significa che decidere di partecipare attivamente ad uno di tali tipi di attività significa, necessariamente, trovarsi a sacrificare qualcosa della propria libertà personale, della propria potenzialità di controllo sulla propria dimensione privata.
 
E nessun tipo di intervento pubblico (finanziamenti, prestazioni, servizi, ecc.) potrà mai evitare all’individuo (donna o uomo che sia) la necessità e la responsabilità (e però anche allo stesso tempo,  perciò stesso, la possibilità: e questa è la buona notizia) di individuare il proprio personale punto di equilibrio tra queste due esigenze antinomiche (e cioè in contrasto tra loro ma entrambe importanti, entrambe socialmente desiderabili).
 
Nessuna risorsa per la conciliazione, in altre parole, potrà mai davvero consentire di armonizzare completamente (quasi ‘senza costi’) due tipi di attività che si contendono uno spazio dato e definito (quello della esistenza individuale), sul quale si trovano inevitabilmente entrambe ad insistere.
 
Con un poco di enfasi (utile, credo, ai fini di sollecitare a questo punto una attenzione che possa andare anche oltre gli orientamenti culturali ed istituzionali pur faticosamente acquisiti negli ultimi tempi) si potrebbe affermare che la partecipazione la si paga sempre al prezzo della propria esistenza: anche se poi, subito dopo, si dovrebbe affermare che ne vale però la pena, perché la partecipazione (alla formazione, al lavoro, alla politica) è una delle modalità attraverso le quali le persone possono contribuire a costruire condizioni migliori per la propria esistenza, e per quella degli altri.
 
E poi, naturalmente, vale il principio per il quale la disponibilità di risorse per la conciliazione consente che siano le persone (le donne, ma anche gli uomini, come sappiamo) a potere decidere se e in che misura fruirne, e quale punto di equilibrio trovare: evitando loro di subìre invece passivamente i vincoli della situazione oggettiva in cui si trovano.
 
Per limitarsi al tema della partecipazione alla politica, in fondo, è proprio qui che interviene la riflessione suggerita da una parte delle interviste realizzate nell’indagine: quella nella quale le donne mostrano di intendere la cura della famiglia, del proprio lavoro, e della comunità più prossima, come forma appropriata di comportamento partecipativo alla politica (intesa però quest’ultima come cosa pubblica, come spazio e ambiente che riguarda tutti, come cellula del corpo sociale).
 
Infatti è come se, dedicandosi a quella che nel testo viene definita partecipazione personale, le donne intervistate mostrassero, paradossalmente, una inedita via di possibile conciliazione: come se trovassero cioè la conciliazione tra le due dimensioni (personale, politica) facendole coincidere, e cioè vivendo come servizio alla comunità allargata (ed alla società nel suo complesso) la cura di ciò che di più personale rientra nel proprio raggio d’azione, pur non essendo tale cura, di norma, classificata come politica nel senso corrente del termine.
 
Si potrebbe affermare che, in un certo senso, molte donne scelgono la politica che fa cose, piuttosto che la politica che interviene sulle cose per regolarle: e lo fanno nell’assunto (anche questo implicito) che una soluzione possibile consista oggi nell’etica individuale, nel fare ciascuna il proprio dovere; come se della politica istituzionale e di quella sociale si potesse (e/o si dovesse) fare a meno, e prefigurando una sorta di autosufficienza dei ‘mondi vitali’ personali, della quale non possiamo non individuare il limite.
 
È forse, questa, la cifra di quella che nell'introduzione al volume ho sottolineato come una moderna tragicità.
 
Da un parte, infatti, stanno le persone sole con sé stesse, al di fuori della politica e a volte esplicitamente contro di essa, nella generosa illusione di poter costruire in questo modo, collettivamente e magicamente, una società migliore, senza la mediazione della politica, dei partiti e dei corpi intermedi (al di là della loro ‘forma’ attuale), che sono percepiti come sovrastruttura patologica e patogenetica.
 
E dall’altra parte, invece, stanno le persone che abitano la politica istituzionale: anch’esse, paradossalmente, sole con sé stesse, nel vuoto della partecipazione che manca, e con la seduttiva tentazione di salvare il mondo da sole, ed anzi a volte paradossalmente contro di esso (magari consolandosi con teorie generosamente propense a rinforzare un atteggiamento sostanzialmente autoassolutorio).
 
Si tratta, a ben vedere, di due parzialità che non si incontrano, che non riescono a percepirsi e ad entrare in relazione: ciascuna delle quali si autoassolve, imputando all’altra la responsabilità della situazione insoddisfacente che entrambe riscontrano, ciascuna dal proprio punto di vista.
 
Senza nessuna indulgenza a visioni idealistiche, e pur nella piena consapevolezza che tra discorso pubblico-istituzionale e discorso privato-personale permangono strutturalmente elementi di irriducibilità [2], ritengo che possa, e debba, essere fatto tutto il possibile per identificare un punto di equilibrio migliore di quello attuale tra queste due istanze.
 
E credo che senza fretta, trovando il coraggio di sostare nella incertezza, e in quel tanto di depressione che essa inevitabilmente è destinata a generare, coloro che hanno in particolare responsabilità nella politica istituzionale debbano cominciare e ripensare le categorie stesse della partecipazione.

[1] Tali risultati sono contenuti nel volume di F.Vitali I luoghi della partecipazione. Una ricerca su donne, lavoro, politica Franco Angeli 2009. Il presente contributo è tratto, con parziali modifiche, da uno dei paragrafi di P.G.Bresciani Donne, partecipazione, politica. Strategie di intervento e linee di azione. Alcune suggestioni, che ne costituisce l’introduzione.
[2] 
Su questo punto, si veda P.G.Bresciani, Il mestiere di vivere nella società delle transizioni. In P.G.Bresciani e M.Franchi Biografie in transizione. I progetti lavorativi nell’epoca della flessibilità. Milano Franco Angeli 2006
Foto di Taryn Elliott da Pexels
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